venerdì 26 novembre 2010

Il pranzo di Enrico III

Niente è lasciato al caso durante la visita del sovrano Enrico III re di Francia, nel 1574, all'Arsenale di Venezia: l'entrata attraverso il portale trionfale, l'ispezione ai reparti tecnici, le prodezze di uno sforzo organizzativo che consente di armare in un sol giorno - sotto lo sguardo sbalordito del sovrano - una galera di tutto punto. E per finire, la sosta nelle tre sale d'armi prospicienti il bacino dell'Arsenale Nuovo, una delle quali destinata al banchetto in onore del re di Francia.
Nella rustica cornice di legnami e ferramenta le sorprese devono però ancora iniziare. Accomodatosi col suo seguito per consumare un pranzo che si immagina senza fronzoli, Enrico resta meravigliato quando "prendendo egli il tovagliolo in mano, questi si ruppe in due pezzi, di cui uno cadde a terra: infatti tovaglie, piatti, posate, tutto sulla tavola era di zucchero! così simili al vero da ingannare chicchessia", come raccontano de Nolhac e Solerti.
Per impressionare il raffinato re francese, la Serenissima ricorre ad un'arma micidiale, protagonista di una storia speciale nella quale Venezia ha una larga parte: lo zucchero. Questa polvere dolcissima è allora una vera rarità. Si vende in farmacia come medicamento contro lo scorbuto e le malattie degli occhi ed entra in cucina, mescolata alle spezie, essenzialmente per fare status symbol.
Originaria dell'India, la canna si è acclimatata nel Mediterraneo orientale, ma sono gli arabi ad inventare lo zucchero sviluppandone il metodo di raffinazione e diffondendolo in Sicilia e Spagna. Nel mondo cristiano Cipro detiene il monopolio della coltivazione della canna, e la Repubblica di Venezia quello della vendita in tutta Europa. Gli spezieri veneziani si specializzano nella raffinazione dello zucchero grezzo e diventano abilissimi nel confezionare una gran quantità di ghiottissimi prodotti: sciroppi, confetture, cannellini, pignocade, diavolini, persegade, violette candite, nonché l'"acqua celesta di gioventù", una sorta di elisir di lunga vita.
La "polvere di Cipro" - come allora si chiamava lo zucchero - è d'obbligo anche nei matrimoni che contano. E' usanza regalare alla sposa una scatola di dolci, nel mezzo della quale si trova il bambin de zucaro (una statuetta di zucchero raffigurante un bambino), che la donna deve conservare e guardare spesso per fare un figlio bello come la statuetta.
Da questa tradizione deriva l'espressione "ti xe beo come un bambin de zucaro", che capita ancor oggi di sentire.


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lunedì 22 novembre 2010

Prova di coraggio

Non era dell'umore adatto per partecipare ad una chiassosa festa di piazza il giovane patrizio Almorò Morosini, ma ugualmente decise di lasciare il palazzo di famiglia e dirigersi verso il Campo Santa Maria Formosa. "E' davvero una bella giornata" pensò tra sé "che sarebbe un peccato sprecarla ad oziare a palazzo. Andrò dunque a godermi lo spettacolo della caccia al toro".
La caccia al toro era tra le manifestazioni più seguite a Venezia, e diventava un vero e proprio spettacolo considerato da non perdere nel momento in cui, all'ora prefissata, uscivano nel campo fino a sei tori che portavano appesi alle corna dei fuochi artificiali allo scopo di rendere più scenografica la caccia e aumentare il nervosismo degli animali. Tra le grida degli astanti, venivano aizzati contro i tori dei cani che dovevano in un certo modo dimostrarne la forza. Nell'impari lotta, il cane cercava di azzannare l'orecchio del toro, ma non di rado accadeva che qualche bovino, scrollando la testa, scaraventasse in aria il piccolo avversario per poi infilzarlo con le corna tra gli applausi degli spettatori.
In mezzo alla folla festante, il Morosini osservava pacatamente lo svolgersi della caccia ormai prossima alle fasi conclusive e attendeva il momento finale in cui il più abile componente della confraternita dei beccai si cimentava nello staccare la testa al toro con un sol colpo di spada. Mentre era assorto nei suoi pensieri, improvvisamente dalla folla sbucarono quattro sgherri armati che gli aizzarono contro un feroce mastino. Colto di sorpresa il Morosini non perse però d'animo e sguainata prontamente la spada uccise con un abile colpo il cane inferocito. Poi, senza nessun timore, affrontò e mise in fuga anche i quattro sicari, che erano stati inviati da una famiglia rivale per sistemare antiche ruggini.
L'episodio aveva avuto un occasionale spettatore: il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre di Palazzo Priuli aveva assistito, in compagnia di altri nobili veneziani, alla caccia al toro. Colpito dal valore dimostrato dal Morosini, chiese immediatamente ai presenti: "Chi è costui? Conducetelo da me", "La persona di cui parlate, Eccellenza" spiegò un anziano senatore "altri non è che il patrizio Almorò Morosini, considerato tra gli eroi di questa Repubblica per aver dimostrato un grandissimo valore nella recente guerra contro i Turchi". "Ebbene" rispose il principe "se le cose stanno così, andrò io da lui!" e lasciato il balcone, scese rapidamente le scale portandosi sul campo.
Dopo essersi presentato e congratulato con l'intrepido patrizio veneziano, Eugenio di Savoia volle regalargli un quadro del Correggio rappresentante la Vergine. Dipinto che la famiglia Morosini, in ricordo del proprio avo, conservò poi nei secoli, raccontando con orgoglio l'episodio accaduto durante la caccia al toro a quanti si soffermavano ad ammirare il delicato dipinto alle pareti del salone nel grande palazzo di famiglia.


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(Fonte: D. Mazzetto)

martedì 16 novembre 2010

L'intimità del felze

Molto meno si sarebbe scritto sulla gondola se non fosse stata ricoperta da quella sovrastruttura barocca detta "felze"
Il felze era una struttura mobile creata per riparare i passeggeri delle gondole. Composta dapprima di un semplice drappo poggiato su un arcuato telaio in legno, nel Cinquecento la struttura si abbassa e assume la forma di un vero e proprio riparo. A partire dal Seicento, la struttura viene ricoperta con la "rascia", un tessuto di lana nera venduto in calle delle Rasse.
La struttura in legno di noce veniva realizzata negli squeri, mentre i tappezzieri eseguivano le finiture interne, spesso in raso e in costosa passamaneria. Le decorazioni esterne erano realizzate da esperti intagliatori, e riproducevano divinità marine, teste di grifoni, fiori stilizzati. L'interno veniva arredato con tappeti, bracieri speciali, specchi e persiane che consentivano un completo isolamento. Sulla porticina d'ingresso, sotto allo stemma della casa patrizia, era appeso il "feral de codega" che dava una tenue luce all'interno del felze.
"Barca xe casa" si dice a Venezia, e il felze creava l'intimità di un rifugio personale. Nobili e cortigiane trovavano in questo minuscolo salotto uno spazio dove trascorrere il tempo conversando, cenando o giocando a carte. Ma il felze diventava anche un'alcova galleggiante, un talamo largamente utilizzato, una forma di mascheramento che concedeva tresche e comportamenti licenziosi a veneziani e foresti.
Il felze contribuì a creare il mito di una Venezia libertina e misteriosa, della gondola come cigno nero che scivola silenziosa sull'acqua nascondendo intrighi, misfatti e amori.
I romantici di tutto il mondo hanno cantato l'atmosfera "sotto l'intimità del felze, col vivido quadro veneziano incorniciato dal finestrino mobile", come scrisse Henry James.



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(Fonte: C. Coco)

giovedì 11 novembre 2010

San Martino

Nel 751 Ravenna viene occupata dai Longobardi, e molti ravennati in fuga trovano rifugio nella laguna di Venezia. Già nel 936 compaiono le prime notizie di una chiesa dedicata a San Martino (ricordiamo che la cattedrale di Ravenna era dedicata appunto a San Martino) nell'area che verrà poi utilizzata per la realizzazione dell'Arsenale.
La chiesa di impianto veneto-bizantino venne poi completamente riedificata nel Cinquecento ad opera del Sansovino. In quella occasione venne realizzato anche l'edificio a fianco, come sede della Scuola devozionale di S. Martino, che custodiva un pezzo di tunica, un dito ed un osso della gamba di S.Martino. La reliquia della tibia fu ceduta alla Scuola di San Giovanni Evangelista in cambio di una somma utile al restauro della Chiesa, obbligando però i confratelli a portare la preziosa reliquia in solenne processione l’11 novembre di ogni anno, la tradizione avrà fine solo con la caduta della Repubblica.
Sulla facciata si trova una Bocca di Leone per le denunce segrete (che però per poter esser prese in considerazione non potevano essere anonime). Sulla sommità della facciata abbiamo due statue: San Martino Vescovo (300 dc) e San Martino Papa (600 dc), il primo si festeggia l’11 novembre il secondo il giorno seguente. L'11 di novembre era anche il giorno per il rinnovo dei contratti d'affitto: “far samartin” significava infatti "traslocare". Ma soprattutto l’11 novembre è la festa dei bambini che girano per le calli cantando la filastrocca di San Martino e rumoreggiando con tamburi improvvisati, in cambio ricevono monetine o dolci di pastafrolla a forma di cavaliere che ricordano quello del bassorilievo sopra la Scuola di San Martino.


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martedì 9 novembre 2010

La moneta a Venezia.

Fin dai primi secoli della Repubblica, quando ancora sussisteva il sistema del baratto, era certamente in uso anche la moneta.
Si ha notizia che nel secolo IX circolavano a Venezia denari d'argento recanti sul verso la scritta "Venecie", ma la prima, sicura testimonianza di una zecca locale si ha soltanto agli inizi del secolo XI.
Nel 1112 il doge Ordelafo Falier vende un suo terreno in contrada S. Bartolomeo, a Rialto, e nel documento di vendita si parla di luogo ove "laburatur moneta". Secondo il Tassini l'edificio dell'antica Zecca sorgeva sulla fondamenta detta appunto Fondamenta della Moneta, oggi Riva del Ferro.
Nel 1224 viene creata la prima Magistratura con il compito di gestire la Zecca di Stato.
Il sistema monetario veneziano si fondava su due diversi tipi di lira: la lira di piccoli, usata nel commercio al minuto e per i salari, e la lira di grossi, usata nella contabilità di Stato e nei commerci all'ingrosso.
La lira era divisa in 20 soldi, e ogni soldo si divideva in 12 denari. Il termine "lira" deriva da "libbra" che era l'unità di misura francese sulla quale Carlo Magno nel 779 fece regolare il taglio della moneta del nuovo sistema monetario dei Franchi.
Nel 1284, sotto il doge Giovanni Dandolo, fu istituito il primo ducato d'oro o zecchino veneziano, del peso di 3,56 gr, il cui valore rimase pressoché inalterato fino al cadere della Repubblica (1797) e che godette d'enorme favore sul mercato internazionale.
Nel 1472 si deliberò la coniazione d'una nuova moneta: la lira Tron, o lira trona, dal nome del doge in carica, Andrea Tron.
Sotto il dogato di Nicolò Da Ponte si diede inizio alla coniazione dello scudo veneto (1578), del valore di 7 lire, il cui peso era di 4,31 gr di argento.
Sul finire del Cinquecento, dopo il fallimento di alcuni banchieri, il governo istituì un Pubblico Banco Mercantile, detto banco-giro, composto da un cospicuo deposito, sotto la garanzia dello Stato. Il Banco aveva sede presso la Chiesa di San Giacometto di Rialto, e lì si sviluppò la tecnica contabile che oggi chiamiamo del “giroconto”.


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venerdì 5 novembre 2010

I luoghi di Corto Maltese a Venezia

Hugo Pratt si è divertito ad inventare nomi poetici per i luoghi del suo personaggio preferito, eccovi svelata la toponomastica:

- "Ponte della nostalgia": Ponte Widmann, vicino alla Chiesa dei Miracoli, Cannaregio
- "Sotoportego dei cattivi pensieri": Sotoportego dell'Anzolo che dà sulla Calle Magno, Arsenale, Castello
- "Campiello de l'arabo d'oro": Corte Rotta a San Martino, nelle vicinanze di Campo Do Pozzi, Castello
- "Corte del Maltese": Corte Buello nei pressi di Corte Nova, Castello
- "Calle dei Marrani": Salizada Santa Giustina, vicino a Campo San Francesco della Vigna, Castello
- "Corte Sconta detta Arcana": Corte Botera nei pressi di San Zanipolo

L'osteria che appare nelle storie di Corto è la Trattoria da Scarso, nella piazzetta di Malamocco, dove Hugo amava ritrovarsi con gli amici.
La casa di Hipazia è Palazzo Diedo, vicino a Santa Fosca.
Pratt scelse l'abitazione di Tiziano come domicilio di Corto, la casa si trova in Corte del Tiziano, Cannaregio

Alcuni personaggi creati da Pratt sono ispirati a persone reali:
- Esmeralda: Nini Rosa, grande amica veneziana di Hugo ed esperta ballerina di tango
- Bocca Dorata: Bocca Dorata è una cartomante creola di Bahia, maga esperta in voodoo caraibico che gestiva la società "Finanziaria Atlantica dei Trasporti Marittimi". Fu uno degli amori giovanili di Pratt
- Venexiana Stevenson: Mariolina, moglie di Guido Fuga (amico, collaboratore e compagno di viaggi di Pratt, insieme a Lele Vianello)

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mercoledì 3 novembre 2010

Un'ipotesi sulle origini de "I Promessi Sposi"

Nei primi anni del 1600 un signorotto vicentino, Paolo Orgiano, protetto da un potente zio, Conte dei Fracanzan, e spalleggiato da un cugino, Tiberio, scavezzacollo e scellerato come lui, insidia Fiore Bertola, una bella contadinotta diciassettenne, orfana di padre. Fiore resiste alle lusinghe e sposa Vincenzo Galvan, un giovane contadino da lei amato. Passa qualche tempo e in una sera d' inverno il signorotto ordina il rapimento della giovane: con l' aiuto dei suoi "bravi" fa arrivare la fresca sposa nel proprio palazzotto e lì la violenta. Lucia Fiore dunque fu di Paolo Orgiano don Rodrigo.
Fiore, violata e umiliata, fuggì discinta e scalza dal palazzotto del suo tiranno e tornò avvilita dal marito. Vincenzo (Renzo) non dovette aspettare la peste giustiziera per placare la propria sete di vendetta. Grazie a fra' Lodovico, religioso impavido, difensore di ogni perseguitato, ottenne giustizia dal Tribunale di Venezia.
Nel 1607 Paolo Orgiano, difeso da un mediocre Azzeccagarbugli, venne condannato dal Consiglio dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia al carcere a vita, per aver terrorizzato per anni il paese di Orgiano, con “homicidi, sforzi, violentie et tirannie”. In particolare per “far operazioni nell’impedir matrimoni”.

Duecento anni dopo, Alessandro Manzoni scrive “I Promessi Sposi”, attingendo dichiaratamente a svariate fonti storiche del ‘600. La vicenda di Paolo Orgiano presenta sorprendenti analogie con quella del Manzoni: Don Rodrigo impedisce il matrimonio di Lucia, e la perseguita fino a costringerla ad allontanarsi. Fra’ Cristoforo aiuta Lucia nelle sue traversie.
Ma sono solo alcune delle molte similitudini tra le due vicende. La questione è come Alessandro Manzoni abbia potuto avere in visione il fascicolo del processo, tuttora giacente all’Archivio di Venezia, corredato delle vivaci testimonianze di popolani e nobili.
Ecco allora spuntare la singolare figura di Agostino Carli Rubbi, archivista veneziano frequentatore e conoscitore della vita culturale lombarda, amico del Beccaria, che potrebbe essersi fatto segretamente tramite della consultazione degli atti del processo da parte dello scrittore. A questa ipotesi il professor Claudio Povolo, dell’Università di Venezia, ha dedicato approfonditi studi, e la sua ipotesi è stata accreditata dai più eminenti esperti in materia.

Da questa ipotesi la compagnia teatrale di Mestre "Fuoriposto" ha tratto una rappresentazione sceneggiata da Paola Brolati ed interpretata dalla Brolati stessa e da Augusto Charlie Gamba, col titolo: "Storia, romanzo, processi... e sposi promessi".