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martedì 13 ottobre 2015

La Venexiana

A Venezia verso il 1536 in un circolo privato si rappresenta una commedia intitolata La Venexiana, che non vuol dire “la donna di Venezia” (i personaggi principali sono due donne veneziane), bensì “la commedia ambientata a Venezia” (come La Cortigiana di Pietro Aretino non vuol dire “la meretrice d'alto bordo” o “la donna di palazzo”, bensì “la commedia ambientata a corte”). 
 
Non si sa chi sia l'autore (o l'autrice).
E' certo che è stata scritta espressamente per la rappresentazione teatrale.
Viene rappresentata una volta sola, per un pubblico esclusivamente maschile.
Gli attori sono tutti uomini.

Due donne, Anzola (Angela) e Valiera (Valeria) si contendono l'amore di un giovane soldato di ventura lombardo, Giulio, venuto a Venezia a cercar fortuna. Anzola è vedova da poco. Valiera, più giovane, è sposata ad un vecchio. Entrambe hanno una serva. Parlano tutte in veneziano, Giulio parla un italiano lezioso. Un facchino parla bergamasco.
Le due donne stanno in due case vicine a quello che ancora oggi si chiama campo San Barnaba. Ci sono altre precisazioni topografiche: San Marco, Rialto, calle di Gallipoli che dà sul campo dei Frari.
Si è potuto precisare che le due donne sono di due rami della famiglia Valier. Anzola è vedova di un Marco Barbarigo, capo del Consiglio dei Dieci, Valiera ha sposato un Giacomo Semitecolo, “Avogador di Comun” (all'Avvocatura di Stato competono tra l'altro i delitti d'onore e gli adulteri). Valiera ha una sorella, Laura, sposata ad un Berbarigo, cognata quindi di Anzola.
Queste minuzie contribuiscono al colore locale e ci aiutano a capire che la commedia ha un tono diffamatorio, piccatamente libellistico, nel gusto di Pietro Aretino (che è arrivato a Venezia nel 1527, e in questo anno 1536 è ben vivo – morirà qui nel 1556). 
 
La sensualità delle due donne, che dà nel torbido, è a metà strada tra l'eleganza di Leonardo Giustinian e gli eccessi di Maffio Venier. 
 
E' facile dire che La Veneixiana è la più bella commedia d'area veneta del Cinquecento. I confronti con le commedie di Pietro Aretino e di Angelo Beolco sono appropriati. Si può anche dire che La Veneixiana è la più bella commedia italiana del Cinquecento, ma prima di far graduatorie su scale di merito è opportuno sentire su scala geografica la lontananza delle aree in cui nascono le commedie ferraresi di Ludovico Ariosto e le commedie fiorentine di Niccolò Macchiavelli.

La Veneixiana, dopo la sua prima e unica rappresentazione cinquecentesca, viene poi dimenticata, e riscoperta e pubblicata solo nel 1928.
Gli studi hanno fatto notevoli progressi negli ultimi decenni, eppure, o forse proprio per questo, si resta col sospetto che nell'area veneziana ci sia ancora da scavare e da scoprire, e che sia opportuno vederla come un'area lontana da altre, più ricca di altre, da considerare in una prospettiva di maggior autonomia letteraria.

martedì 27 agosto 2013

La maschera di Pantalone, mercante di Venezia

Maschera di Pantalone a Venezia
La compenetrazione radicale tra Venezia e la maschera, pone la questione se fosse il Carnevale ad entrare in tal modo nella quotidianità o se l'ambiguità della maschera si innestasse sulla ambiguità ideologica della società veneziana. Si noti comunque che la maschera di Pantalone, che è la più veneziana, non intende proporre alcun elemento di esotismo o di grottesco, ma soltanto riproporre il prototipo di cittadino veneziano:
"Vada ognun persuaso che questa mascara fosse stata istituita anche prima dell'introduzione delle rappresentazioni teatrali, poiché il vestire di costui denota quello de' cittadini veneti del secolo XVI".

Ricostruendo l'origine del teatro veneziano all'inizio del Cinquecento e segnalandovi la presenza corruttrice di "interlocutori mascherati ridicoli e soggetti a beffe", si rileva tra costoro l'introduzione di un "vecchio cittadino veneziano" che venne chiamato "Pantalone" (sembra dall'abitudine dei mercanti della Serenissima di piantare il vessillo di San Marco ovunque si recassero, per cui detti "pianta leone")
"La maschera veneziana ebbe da principio anche il soprannome di Magnifico. Titolo onorifico molto in uso a Venezia nel secolo XVI, indirizzato soprattutto ai patrizi". Non è improbabile che l'uso di questo titolo venisse anche utilizzato per indicare il lustro e la dignità sociale del mercante veneziano. Titolo infine non disgiunto da un palese intento parodistico, nei confronti di una borghesia che spesso scimmiotta gli attributi dell'aristocrazia.

Dunque originariamente Pantalone non è una maschera ma una caricatura del veneziano modello: mercante, ricco, avaro. Tuttavia alcuni caratteri della maschera (la barbetta a punta, il sopracciglio alzato) sono gli stessi della commedia greca antica.
Spesso Pantalone è raffigurato come un vecchio, perché secondo una tipologia comica già antecedente, i suoi difetti appaiono più marcati e ridicoli. Naso adunco, barba a punta, sopracciglio alzato, sono però anche tratti levantini, quasi giudaici, degni appunto di un "Mercante di Venezia" shakespeariano.
Ma attenzione a quanto avvisava Allardyce Nicoll:
"E' dunque un personaggio d'una drammaticità ben più sottile di quella d'un semplice vecchio logorato dall'età. Nel pensare a Pantalone dovremmo dimenticare il personaggio di Shakespeare, scarno e smunto, i piedi infilati in pantofole, e cerca di vederlo come fu veramente, o almeno come avrebbe dovuto essere: un mercante di mezza età, vigoroso, onesto, con alle spalle una bella carriera, coinvolto in vicende sentimentali cui non sempre riesce a tener testa".

Pantalone vecchio e giovane, dunque. Pantalone vecchio in "La dispettosa moglie" (Alessandro Zatta, 1667). Il "Pantalone imbertonao" ("innamorato"), commedia eponima pubblicata nel 1673, laddove la scena è una Venezia pre-turistica, già piena di "foresti" (l'oggetto dell'innamoramento di Pantalone è una giovane francese...).
Pantalone diventa perfino povero e affronta la "Bancarotta, ovvero il mercante fallito" (Goldoni, 1740). Il trattamento della maschera in Goldoni nella Commedia dell'Arte è particolarmente attento al suo simbolismo depositario di una mentalità in declino.

Ma a parte Goldoni e la suggestione di un Pantalone ebraico, la figura del padrone non sembra aver goduto della medesima fortuna di quella del servitore. Lo stesso Carlo Gozzi, sebbene ben più tradizionalista di Goldoni, presenta il suo Pantalone in modo anacronistico, quasi umiliante. Anche perché i vizi che la maschera doveva incarnare, soprattutto l'avarizia (ma anche la libidine senile), erano destinati, attraverso una lettura severa e a volta nostalgica a trasformarsi in virtù borghese.

Infine i francesi chiameranno "Pantaloni" quei veneziani che:
"Erano pescatori, sono divenuti mercanti, si fecero corsari ed ora sono usurai". E si giunge così al fatale 1797.

Fonti: Alessando Scarsella, Grevembroch, Spezzani, Allardyce Nicoll.

giovedì 10 giugno 2010

Pantalon

Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono la bandiera del Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo Orientale (da qui una delle etimologie:"pianta-leone"). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del Teatro dell'Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano mentre lo Zanni o Arlecchino sono servitori che, provenienti dall'entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell'ambito cittadino cinquecentesco. Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell'Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da poche compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel Festival della Biennale Teatro del 1985), gli attori che vogliono studiare le maschere dell'Arte devono riparare alle scuole transalpine, così come fecero già a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne.
Quella che occorre quindi per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907 e scomparso all'età di ottant'anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell'Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici, un baule ricolmo di maschere. Scoperto anche lui nel '47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza sosta la maschera di Pantalone portandone a perfezione l'interpretazione, ma purtroppo senza creare un allievo degno del suo nome.
Singolare è invece la storia di un certo Giambattista Garelli, vissuto a Venezia nel '700, a tal punto straordinario nell'interpretare questa maschera, da diventarne infine prigioniero. Egli infatti veniva stipendiato annualmente dalla famiglia Vendramin perché non abbandonasse mai il teatro di San Salvador...

Fonti: M.Brusegan, A.Scarsella, M.Vittoria, G.Fuga, L.Vianello