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lunedì 31 marzo 2014

Le origini di Venezia

Sfatiamo subito un mito, e cioè quello della città nata dal nulla da libere genti. 
Il termine “Venetia” infatti, insieme all’Istria era inizialmente una delle regioni in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il territorio italico, e da quella regione si sarebbe venuta distinguendo una seconda Venetia, questa volta lagunare composta da isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonzo e del Po.
Ad avviare il processo per cui dalla Venetia continentale veniva creandosi la nuova Venetia marittima erano stati fattori esterni legati all’invasione longobarda del 569. In realtà già nel secolo precedente con le scorrerie degli Unni le lagune avevano offerto un rifugio sicuro alle popolazioni della terraferma, ma in fondo la tempesta barbarica era passata abbastanza rapidamente e le genti profughe avevano potuto rientrare alle loro case. Le cose andarono diversamente invece con i Longobardi, in quanto stavolta si trattava della migrazione vera e propria di un intero popolo ben deciso a fermarsi in Italia, cosicché per le genti che si ritiravano in laguna non si sarebbe più riaperta la via del ritorno. Il primo passo quindi nella costruzione di una Venetia diversa ebbe luogo con l’animo del profugo. In sostanza la difesa del vecchio mondo pre-longobardo (e quindi “bizantino”) divenne motivo per la nascita della nuova civiltà veneziana.
In ogni caso gli insediamenti dei profughi sparsi per la laguna non erano certo ancora identificabili come unità urbana e non lo saranno fino al IX secolo.
E’ importante ricordare che le lagune non erano disabitate prima dell’arrivo dei profughi e già il prefetto Cassiodoro nel V sec. aveva lasciato una descrizione precisa delle zone lagunari, le quali erano pienamente inserite nel sistema organizzativo romano.
Che fosse nata dal nulla quindi, come una Venere dalle acque del mare, ad opera di libere genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità tale per cui ancora oggi quella leggenda è accettata come verità.
I Veneziani, dai massimi vertici dello Stato fino all’ultimo pescatore avevano ogni interesse ad accreditare un racconto del genere, perché se non c’era nulla non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello politicamente assai più rilevante dell’originaria libertà di Venezia, ed è dunque la base del programma ideologico destinato ad impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità esterna, uno status che Venezia difenderà fino alla fine dei suoi giorni, mille anni dopo.
La difesa di questa ideologia avverrà a volte con la forza ma molto più spesso con la diplomazia o con abili mosse politiche, basti ricordare la tempestiva trafugazione del corpo di San Marco ad Alessandria d’Egitto nell’828, avvenuta proprio mentre nel sinodo di Mantova si discuteva la giurisdizione spirituale tra Grado (chiesa lagunare legata alle sorti venetiche) e Aquileia (sede patriarcale in sintonia con le autorità politiche del Papato e città di cui la leggenda narra fosse stata fondata proprio da San Marco…). L’arrivo in città della salma marciana affermò dunque definitivamente l’indipendenza di Venezia dall’autorità politica e religiosa di Roma.
La vera e propria nascita della Venezia urbana si fa risalire al 810 quando Agnello Partecipazio, il primo doge della Repubblica, trasferisce la sede del governo da Malamocco a Rivoalto.
Ma per capire appieno l’unicità della storia veneziana è importante ricordare le radici della sua stessa aristocrazia, che non era legata alla nobiltà di sangue come nel resto dell’Europa, ma era invece nata dalle famiglie dei mercanti locali, mercanti che in prima persona rischiavano per creare nuovi commerci, anche molto lontani, e portare redditi alla città stessa. Quasi sempre infatti Venezia deciderà di usare guerra solo per ragioni di commercio, per difendere quindi il proprio diritto e la propria libertà di commerciare. Fatto questo che colpisce ancor di più se si pensa che nel resto del mondo europeo il trattar denaro era considerato nient’affatto nobile, solo i possedimenti terrieri e lo sfruttamento erano considerate attività aristocratiche.
Ecco quindi che la difesa dei propri interessi, e la possibilità di trarne vantaggio per tutte le fasce sociali, compatta l’intero popolo veneziano in una identificazione statale impossibile altrove.

(Fonte: Ortalli e Scarabello)
 

mercoledì 6 marzo 2013

Caterina Corner Regina di Cipro

Fin dal Duecento i veneziani erano presenti a Cipro dove praticavano diversi commerci – l'isola infatti era ricca di vini pregiati e di zucchero (all’epoca prezioso quanto il sale).
Cipro raggiunse il massimo splendore sotto la stirpe dei Lusignano (famiglia di origini francesi) dal 1100 al 1400. La stabilità venne meno quando morì Giovanni II senza figli maschi: il regno passò alla figlia Carlotta che aveva sposato un Savoia, ma Giovanni II aveva anche un figlio illegittimo, Giacomo, che appoggiato dai Veneziani occupò l’isola con la forza ed esiliò Carlotta.
Giacomo si rivolse quindi a Venezia per cercare una sposa e in particolare alla famiglia Corner, la quale aveva forti legami commerciali con i Lusignano. Sull’isola risiedeva stabilmente Andrea Corner mentre suo fratello Marco teneva le relazioni con la piazza di Venezia. Marco aveva una figlia, Caterina, che divenne così, a soli 12 anni la promessa sposa di re Giacomo, sotto la pressione della Repubblica stessa che aveva tutti gli interessi a mantenere un piede nell’isola, e così al compimento del 18° anno Caterina partì per Cipro, con un corteo formato da 4 navi veneziane e 3 cipriote.
L’accoglienza riservata a Caterina a Cipro fu eccezionale, con grandi festeggiamenti e regali da parte del popolo, ma ben presto cominciarono i guai: Giacomo, molto più anziano di lei, aveva già tre figli avuti da tre donne diverse e la convivenza si rivelò difficile... Dopo solo un anno Caterina rimase incinta, ma prima che potesse partorire, Giacomo morì cadendo da cavallo, lasciando il regno nelle sue mani. Fu così che Caterina Corner divenne Regina di Cipro.
Il popolo però si dimostrò presto scontento per via della sua condotta di vita tutta concentrata sui propri piaceri, quasi dimentica del popolo cipriota. Le cose poi peggiorarono con la morte dello zio Andrea e del figlio che nel frattempo era nato. Subito si ripresentarono i Lusignano e i precedenti figli di Giacomo, tutti pretendevano al trono; Venezia dovette intervenire militarmente per sedare ogni pretesa e Caterina fu riconfermata sul trono affiancata da due Consiglieri veneziani.
Ma la Regina sola, triste e annoiata non trovò altro modo per consolarsi che concedersi  lussi ben al di là delle sue possibilità; e di nuovo il malcontento del popolo si fece sentire... fu così quindi che la Serenissima la convinse ad abdicare, promettendole in cambio un appannaggio di 8mila ducati annui e la consegna della villa di Asolo dove si ritirò circondata dal suo seguito e dalla fama per essere stata la prima e unica Regina figlia di Venezia.
Il suo ritorno a Venezia è all'origine di un celebre evento in città, ma questa è un'altra storia...

lunedì 11 giugno 2012

L'Arte dei pescatori a Venezia

In un luogo così strettamente connesso con l'elemento liquido, le confraternite dei pescatori sono, naturalmente, tra le prime a formarsi. I pescatori di Chioggia fondano una prima associazione di mestiere già nel 792, nell'836 è la volta dei nicolotti, raccolti intorno alla Chiesa di San Niccolò dei Mendicoli.
Il governo pratica una severa politica ambientale per la conservazione e la difesa del patrimonio ittico, e dà voce all'esperienza acquisita dai pescatori, tanto è vero che i più anziani partecipano alle sedute del Consiglio quando vengono discussi problemi relativi alla laguna.
Nel 1227 l'Arte viene divisa in pescatori e compravendipesce. I pescatori, al ritorno dal lavoro con le loro tipiche imbarcazioni lagunari come il bragozzo o la togna, confluiscono nel punto ufficialmente deputato per la vendita all'ingrosso: il palo di Rialto, dove i compravendi fanno la stima del pescato per qualità e prezzo. L'offerta viene sussurrata segretamente alla rechia (cioè, all'orecchio), e la vendita al pubblico si farà nelle due grandi pescherie di Rialto e di San Marco. La prima dove si trova tutt'oggi, la seconda nei pressi dell'edificio della Zecca.
Quello del compravendi pesce è un mestiere lucroso e ambito che viene concesso solo a chi ha compiuto almeno cinquant'anni, e dopo esser stato pescatore per almeno venti anni. Una legge del 1433 stabilisce inoltre che bisogna essere originari di Venezia e avervi domicilio.
Nelle due grandi pescherie, una magistratura apposita controlla che il pesce marcio venga buttato e che siano rispettate le misure minime per la rivendita. Trucchi vecchi e nuovi connotano i venditori disonesti che insanguinano le branchie del pesce per farlo apparire morto da poco, o lo guarniscono con troppe alghe per nasconderne la cattiva qualità. Pene molto severe colpiscono i truffatori, che qui infatti non hanno vita facile.
Durante la giornata di vendita il pesce viene mantenuto in tinozze di acqua salata.
Una volta venduto, il pesce viene conservato con diversi metodi: la carpionatura, la salamoia, la conservazione sottolio, l'essiccazione e l'affumicatura.
Fonti documentaristiche medievali registrano che nelle case "ad ogni finestra, in ogni corte, sono stese collane di pesce che insieme ai panni sbiancano al sole". Pratica, questa, utilizzata ancora fino agli inizi del Novecento. Il pesce essiccato veniva poi ammorbidito con olio e condito con erbette di laguna, sale e pepe.
Si praticava anche la salagione casalinga, in questo caso il pesce veniva poi cotto su una base di cipolla e aceto, metodo che è alla base delle ricette di pesce dette "al saor", che qualche osteria propone ancora oggi.

martedì 29 maggio 2012

Mercerie: le botteghe di Venezia

Le Mercerie a Venezia occupano quell'area strategicamente posta tra il centro politico-religioso di San Marco e quello commerciale-mercantile di Rialto. Per la loro importanza, già nel Duecento erano pavimentate in cotto.
Lungo le Mercerie di San Salvador avevano bottega i principali editori musicali e liutai:  i Gardano all'insegna "del Leone e dell'Orso", il liutaio Sigismondo Mahler, i Tieffenbrucker all'insegna "dell'Aquila nera", Francesco Bonafin, costruttore di clavicembali, Giorgio Sellas all'insegna "alla Stella" famoso per le sue chitarre, Luigi Hoffer costruttore di fortepiani.
La vita lungo le Mercerie fu sempre molto attiva: su di esse affacciavano numerosi negozi e costantemente si svolgeva un andirivieni di prodotti d'ogni tipo, da cui il detto "far marsaria" per indicare un trasloco.
La Merceria San Salvador prende il nome dall'omonima chiesa posta all'inizio della strada, verso il Canal Grande, la cui facciata principale volge verso il campo, mentre l'ingresso laterale si trova lungo la calle, tramite un sotoportego che attraversa il blocco edilizio di proprietà del Capitolo della Chiesa. Questo giustifica l'altezza delle case in questa zona: più erano numerosi gli appartamenti e maggiori erano le entrate per il clero! Gli stessi monaci di San Salvador scrissero nel 1507: "da queste case trazemo non mediocre utilità".
Poco più avanti prospetta la Calle degli Stagneri. Gli stagneri erano artigiani che lavoravano lo stagno con una tale abilità da farlo sembrare argento. Nacque il detto "xè passà per la cale degli stagneri", usato quando si dubitava dell'autenticità di un oggetto prezioso.
Lungo le Mercerie del Capitello si trova invece la Calle de le Balote. Qui esisteva la fabbrica delle speciali palline destinate alle votazioni delle magistrature veneziane e alla elezione del doge. Inizialmente fabbricate in cera e poi in tela di lino pressata, queste "balote" sono all'origine del termine "ballottaggio" usato ancora oggi per le votazioni.

martedì 7 febbraio 2012

Campo dei Mori a Venezia

Il Campo dei Mori si trova a Cannaregio, nei pressi della Chiesa della Madonna dell'Orto. Si chiama così per via della presenza di quattro statue trecentesche in pietra d'Istria inserite nei muri delle case che circondano il Campo. Le statue rappresentano i fratelli Mastelli, venuti dalla Grecia per commerciare in spezie, i quali abitavano nel vicino palazzo affacciato sul rio della Madonna dell'Orto. Per l'esattezza questi mercanti venivano dalla Morea (toponimo veneziano per indicare il Peloponneso) e per questo venivano chiamati Mori, per via quindi della loro provenienza e non per il colore della pelle.

E' importante ricordare che Venezia cercò sempre di inserire le comunità straniere nella vita produttiva cittadina, lasciando loro libertà d'iniziativa e possibilità di lavoro con conseguente uguaglianza amministrativa e giuridica con la popolazione locale; questo comportava una minore probabilità di nascita di piccole entità politiche o sociale, autonomamente gestite.
Le abitazioni, le costruzioni per le attività produttive e per il culto usate dalle diverse colonie straniere, risultavano sparse in varie zone della città e inserite nel tessuto urbano senza confini precisi (a parte alcune rare eccezioni). Lo stabilirsi di popolazioni straniere, con carattere stabile  o temporaneo, fu determinato soprattutto dall'afflusso di mercanti e artigiani che trovavano utile e conveniente stabilire a Venezia, oltre al proprio domicilio, anche la sede della loro azienda o almeno il laboratorio di produzione.

martedì 6 dicembre 2011

All'inizio fu il sale

Il prefetto romano Cassiodoro, nel VI secolo dc, ci lascia una descrizione minuta della laguna e dei suoi abitanti. Tra le immagini più colorite spicca la descrizione dell'uso di legare una barca fuori di casa invece del cavallo. Ma quello che colpisce di più è la considerazione che mentre gli altri fanno girare falci e aratri, gli abitanti della laguna ricavano e triturano sale. E ciò che all'inizio era una pura necessità, diventa ben presto un'immensa fonte di guadagno, dato che il sale assumerà un valore altissimo, tale da essere usato come moneta di scambio.
All'inizio dunque è il sale. E le notizie, anche se incerte e frammentarie fanno supporre che in laguna si estraesse il sale fin dai tempi dei romani. Nel paesaggio lagunare, appena antropomorfizzato, queste rudimentali saline nel volgere di alcuni secoli, diventano sempre più funzionali e facilmente gestibili. Tanto che Lorenzo de Monacis nel suo Chronicon scrive che erano veramente sorprendenti e magnifiche e una delle cose che più ammiravano i foresti in visita. Gli abitanti della laguna però non le chiamavano saline, ma "fondamentum".
Alla fine del XII secolo si contano 120 fondamenti, di cui una settantina nella laguna di Chioggia e molte altre tra Murano, Torcello e Sant'Erasmo. Ma quello che è davvero sorprendente è il numero di saline presenti all'interno della stessa Venezia: circa una decina! Nel Trecento se ne ricordano ancora a San Silvestro, ai Frari e a San Basilio. Ma già nel Quattrocento queste saline cittadine scompaiono e resta solo il ricordo nella toponomastica "Fondamenta".
In ogni caso la produzione di sale è così immensa che Venezia detiene il monopolio per la fornitura del sale in tutta Europa e nel Mediterraneo orientale. Il sale, sia grezzo che raffinato, viene conservato in enormi magazzini situati parte sull'isola della Giudecca e parte nei depositi alla Punta della Dogana.
Naturalmente all'epoca il sale non veniva usato solo per insaporire i piatti, ma anche, anzi, soprattutto per la conservazione dei cibi.

martedì 29 novembre 2011

Le classi sociali nella Repubblica di Venezia

Il patriziato veneziano si distingueva da quello europeo per alcune caratteristiche peculiari:
- era di origine mercantile anziché feudale
- la sua creazione e sopravvivenza era giustificata dalla sua costante partecipazione al governo della Serenissima
- era formato da famiglie anziché da individui e la primogenitura era l'eccezione invece della regola
- non usava specifici titoli nobiliari
Si può ben dire che l'atto creativo del patriziato fu la Serrata del Maggior Consiglio nel 1297, per cui diventarono patrizie le famiglie i cui antenati avevano reso importanti servigi alla Serenissima dall'anno 810 (data del trasferimento della sede ducale da Malamocco a Rivoalto) in poi, o un cui membro aveva seduto nel Maggior Consiglio nei quattro anni precedenti la Serrata. In tutto furono iscritte nel Libro d'Oro della nobiltà veneziana, circa 220 famiglie. Questo cambiamento della costituzione (che di fatto passò da repubblica democratica a repubblica aristocratica) non provocò le tensioni politico-sociali che ci sarebbe potuto aspettare. In primo luogo perché esso confermava una situazione che già esisteva di fatto; inoltre trattavasi di un gruppo sociale omogeneo, attivo, di antica ricchezza, già abituato a servire gli interessi generali; infine era un gruppo numeroso, giacché corrispondeva a circa il 5% della popolazione.
La "classe mercantile" era formata da cittadini veneziani con diritto "de intus" o "de extra", ossia abilitati a commerciare all'interno o all'esterno della città. I non veneziani potevano, se considerati degni, acquistare il diritto "de intus" dopo dodici anni di residenza e attività professionale, e il supplementare diritto "de extra" dopo diciotto anni.
Alla "classe mercantile" appartenevano sia "patrizi" sia "cittadini".
La categoria dei "cittadini" assorbiva anche uomini di scienza e di legge, letterati, medici, funzionari amministrativi e commercianti, formando una classe borghese talvolta ricca, sempre agiata, che aveva comunque una propria rappresentanza politica.
Alle classi privilegiate va aggiunta la classe ecclesiastica, che corrispondeva a circa l'1% della popolazione.
La linea divisoria tra queste classi e il Popolo era il lavoro manuale. A sua volta il Popolo era diviso fra membri delle "Arti" o "Scuole di Mestiere", cioè lavoratori specializzati che accompagnavano il loro lavoro con una certa cultura tecnica, e tutti gli altri che invece vivevano solo del proprio lavoro manuale.
Pur privati di potere politico, i Popolani godevano in compenso di salari relativamente alti (rispetto al resto d'Italia e d'Europa), di cibo sicuro e a prezzi controllati dalla Serenissima; non temevano guerre civili o assalti di eserciti stranieri; non erano relegati in suburbi, poiché le loro abitazioni fiancheggiavano quelle dei patrizi e dei mercanti con cui si mescolavano nelle calli e nei campi, parlando la stessa lingua veneta. Fieri dell'appartenenza ad uno Stato forte e libero, partecipavano alle feste pubbliche, civili e religiose, al Carnevale, alle Regate, alle cerimonie d'elezione dei Dogi e a quelle che accompagnavano le visite di personaggi illustri.
Si spiega così la quasi totale mancanza di movimenti sociali, la fedeltà alle istituzioni ed il senso di appartenenza di così lunga durata.

lunedì 7 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (2° parte)

Oltre ai calici, i prodotti greci colmano anche i piatti di Venezia. Dall'Epiro arriva una pregiata bottarga che, macerata nell'olio e tagliata a fettine sottili, viene servita come antipasto. S'importa anche un salatissimo formaggio chiamato zimotò, di cui si ha memoria fino all'inizio del Novecento.
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle

venerdì 4 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (1° parte)

Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il  nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".

lunedì 18 ottobre 2010

La via delle spezie

Semi, cortecce, delicate foglie e minuscoli frutti, essiccati e usati per aromatizzare i cibi, sono alla base della ricchezza di Venezia. Species deriva dal latino e significa merce speciale, di valore. In opposizione alle cose ordinarie questa definizione include, quindi, tutti i prodotti costosi e unici nel loro genere.
Provenienti da terre avvolte nel mito, le spezie fuggono il banale, il quotidiano, il consueto, evocano sensazioni sconosciute, sapori insospettabili, raffinatezze inaudite. Il loro impiego in cucina risale al tempo dei Romani, quando il Mediterraneo era un lago senza frontiere.
Se il mito colloca le spezie tra gli alberi del paradiso terrestre, i medici dell'antichità le considerano un rimedio contro le malattie. L'importanza di uno stretto legame tra dietetica e benessere ne determina perciò un uso abbondante sia nelle vivande che al termine del pasto, servite confettate o mescolate al vino. Se mettiamo definitivamente da parte la falsa opinione che le spezie servissero per conservare i cibi o nascondere gli odori degli alimenti, si comprende che l'uso di quei sapori era una scelta di gusto e benessere. Il loro costo elevato rappresenta poi un elemento di prestigio che assume presto un significato di status symbol.
A consentire il mantenimento del lusso - nel momento in cui l'impero romano si sfalda - ci pensa Venezia che ben presto assume in questo commercio un ruolo determinante. Scelte politiche appropriate  e intelligenti accordi economici consentono ai mercanti veneziani di commerciare in condizioni privilegiate. Così Venezia assume il monopolio e dal bacino di San Marco si dipartono le rotte di levante e di ponente, perché si acquista in Oriente e si esporta in tutta Europa, facendo passare ogni cosa per Rialto. Si crea la mitica Via delle Spezie che dall'Estremo Oriente arriva ad Antiochia e Petra, oppure dall'Indonesia e dall'India attraverso il Golfo Persico, Bassora, e da lì via terra fino a Damasco. C'è poi la "Via del Cinnamomo": Molucche, Madagascar, Zanzibar, risalendo il Nilo fino ad Alessandria d'Egitto.
Cinquemila tonnellate di spezie trasportate annualmente da una cinquantina di galere e da circa tremila navi a vela, rendono l'idea di questo commercio nell'epoca d'oro.
Nel cuore del mercato di Rialto, la Ruga degli Spezieri raccoglie un'eredità lunga di secoli. I magazzini traboccano di spezie di ogni varietà: piper nigrum, pepe longo, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, macis, zafferano, zenzero, in un'orgia di colori e profumi.
Gli spezieri veneziani triturano e mescolano, provano gusti, studiano combinazioni, verificano effetti. Diventano i più abili confezionatori del mercato mondiale, inventano il "marketing" e il "packaging" delle spezie, miscele ready to use che vengono chiamati "sacchetti veneziani"
Poi Vasco de Gama doppia il Capo di Buona Speranza e le merci cominciano ad arrivare in Europa tramite i portoghesi e gli olandesi. è l'inizio della fine della potenza commerciale della Serenissima.

(fonte: C. Coco)


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