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giovedì 4 settembre 2014

Breve storia della cucina veneziana

Costruita su scampoli di terre, isolata dalle acque della laguna, senza poter coltivare grano e frumento, né "cosa alcuna al viver degli uomini", Venezia ha malgrado tutto detenuto per secoli una posizione primaria nell'arte della gastronomia.
Facendo di necessità virtù, i veneziani diventano presto abili mercanti, per procurarsi quei beni primari che in Laguna non c'erano, ma quella che inizialmente doveva essere una semplice fonte di sussistenza si trasforma presto in una fonte di guadagno, in quanto si comincia ad importare da mercati lontani non solo grano e frumento ma anche spezie, zucchero ed altre merci culinarie sconosciute in Europa.
In anticipo di diversi secoli Venezia intuisce presto la potenzialità di queste merci e inventa letteralmente il marketing, capendo che per poter vendere bene un prodotto bisogna creare la domanda e non aspettare che questa si formi da sola. Ecco quindi che Venezia stessa "inventa" il lusso delle spezie. Ma non solo, sempre in forte anticipo sui tempi, inventa anche il packaging, immettendo sul mercato i famosi "sacchetti veneziani", cioè spezie miste già confezionate e pronte all'uso!
Erede diretta della tradizione bizantina e romana, la gastronomia lagunare è tra le prime a confrontarsi con le altre cucine del mondo: da quella musulmana a quella austroungarica, passando per quella spagnola e francese. Sono incontri che nascono dalla convivenza con le popolazioni islamiche sui mercati di Levante e dal confronto con le minoranze straniere presenti in città fin dai tempi più antichi.
Tra il Quattro e il Cinquecento nuovi e significativi prodotti vanno ad aggiungersi a questa ricchezza di base: dalle gelide acque dei mari del Nord arriva il baccalà, alias stoccafisso, un'autentica rivoluzione culinaria, in un'epoca in cui non esiste il frigorifero.
In una situazione già di per se privilegiata, il Rinascimento investe Venezia con tutta la sua energia innovatrice, e come poteva essere diversamente in una città che sa usare tutte le armi della seduzione, compresa quella del cibo, raffinato e lussuoso, lanciando messaggi di potenza politica a regali ospiti stranieri tramortendoli con fiumi di spezie, zucchero e foglie d'oro su ostriche?
Ma la vera grandezza di Venezia è stata quella di saper uscire dalle cucine e di arrivare alle biblioteche, che poi significa uscire dalle dimensioni dell'effimero per restare nei secoli. Caso unico in tutta la penisola, qui si sviluppa una grande editoria gastronomica con la pubblicazione di ricettari, traduzioni di libri di dietetica dall'arabo e dal greco, trattati di agricoltura e resoconti di viaggio che informano sulla scoperta di nuovi prodotti.
La fine del Cinquecento chiude l'epoca delle pietanze sotterrate da una montagna di spezie, e il vento di nuovi gusti moderni portati dai francesi giunge anche a Venezia. Il consumo del lusso prende altre strade, e per i mercanti veneziani non ha più senso riempire le stive delle navi di quelle spezie che hanno fatto la loro fortuna. Ma i patrizi non si perdono certo d'animo e si riciclano imboccando la via della terraferma, con le grandi bonifiche, gli investimenti agricoli, e la coltura di quelle primizie che rivoluzionano il territorio veneto nella forma che ancora oggi vediamo.
Tra osterie e finger food, tra cioccolate illuministiche e chef francesi si arriva al Settecento. Si spegne la Repubblica ma non la gastronomia, che si fa tentare dai gusti mitteleuropei importati dagli austriaci. Si stampano i primi ricettari borghesi ottocenteschi e la cucina si internazionalizza.
Nel Novecento, legata con un ponte di cemento e di ferro alla terraferma, Venezia perde la sua insularità. Il turista rimpiazza il viaggiatore, i bacari si trasformano in bar tutti uguali, il cicchetto troppo spesso lascia il posto a pizze e panini surgelati.
L'invasione del gusto globalizzato non cancella comunque la buona cucina veneziana, che rimane arroccata in pochi locali e nella dimensione intima della casa.

(fonte: C. Coco)

lunedì 18 giugno 2012

Cibo, vino e proverbi veneziani

"Chi varda el cartelo, no magna vedelo"
Chi guarda il cartello, non mangia vitello. Il detto si presta a diverse possibili interpretazioni, la più comune è: colui che guarda il cartello (in questo caso il menu) troppo a lungo, è solitamente persona insicura, con poca fiducia in se stessa, che esita a lungo prima di accingersi alle imprese desiderate, e nel far ciò, spesso non coglie l'occasione e si ritrova nell'impossibilità di raggiungere il risultato anelato (cioè dopo troppo lungo tentennamento, decide di ordinare al cameriere il vitello quando ormai in cucina il vitello è terminato!). Il detto quindi ci ammonisce dicendoci che colui che prende troppo tempo per decidersi ad intraprendere un'azione, alla fine non concluderà nulla.
"Strasse, ossi, de toccar bessi"
Stracci, ossa, da prendere soldi. Era questo il breve canto che per calli e campielli veneziani lanciava un vecchio venditore ambulante intorno agli anni trenta e quaranta. Un invito alle donne di casa perché uscissero alla porta e gli vendessero arnesi usati, mobili vecchi, vestiti smessi, tutta roba insomma di cui volessero disfarsi. Uno dei tanti mestieri scomparsi. Ignoriamo da dove venisse, giacché non aveva accento veneziano, forse veniva dalla campagna, forse era friulano. Peraltro è da ricordare che per i veneziani d'una volta (ma forse è un poco così ancor oggi), tutto ciò che non era Venezia, era campagna. Tutti quelli che non fossero veneziani erano campagnoli, venissero da Padova, da Udine od anche da Parigi, ad un dipresso come per gli ateniesi, tutti quelli che non erano della loro città erano semplicemente barbari.

Si sa che in laguna il pesce non è mai mancato, e qualora sia abbia l'opportunità di gustarne di appena pescato e cucina ad arte, si dice che: "xe da licarse i barboni" (è da leccarsi le dita). Sia per bontà, sia perché taluni pesci non possono esser mangiati altro che con le dita.
Poter mangiare quindi del pesce fresco e cucinato a dovere, è una cosa deliziosa e quindi "el xe un balar de Carneval", cosa piacevole, che non impegna e dona allegrezza.
Se lo si mangia al ristorante, il pesce è piuttosto costoso, ma talvolta può capitare di doverlo "pagar sora la broca", cioè di pagarlo più del suo valore. Il detto ha tratto motivo dal vino che era versato dalla brocca, "pagarlo sopra la brocca" voleva quindi dire pagare più vino di quanto ne potesse contenere la caraffa.
Per fortuna ci sono anche cibi che costano poco. Ove costassero pochissimo, si direbbe: "costar come 'na cantada de imbriago" (costare come un canto di ubriaco), cioè quasi nulla, appena quello che costa un bicchiere di vino, che alcuni bontemponi sono soliti offrire agli ubriachi per indurli a proseguire nei loro canti.
A questo proposito non sarà inutile ricordare come il vino venga bevuto a Venezia a singolo bicchiere, che un tempo corrispondeva esattamente ad un decimo di litro. Tale bicchiere viene chiamato "un'ombra de vin".
L'ombra di vino si degusta normalmente prima in un'osteria e subito dopo un un'altra e così via. Questo pellegrinaggio si chiama "andar per bacari". Sport assai praticato dai veneziani!
Non manca certo chi accompagna l'ombra di vino con cicchetti ed altri gustosi bocconi, per poi finire la serata "co i pie soto la tola" (con i piedi sotto la tavola), ricordando sempre che "quelo che no strangola, ingrassa" (quello che non strozza, ingrassa), per converso è opportuno non dimenticare che "dove sta Piero no sta Paolo" (dove sta Pietro non sta Paolo), cioè quando la pancia è piena è inutile aggiungere altro (il proverbio però si adatta a diverse situazioni).
in ogni caso si tornerà a casa esclamando: "Gnanca per ancuo no morimo de fame" (neanche oggi si muore di fame).

(Fonte: Federico Fontanella)

lunedì 11 giugno 2012

L'Arte dei pescatori a Venezia

In un luogo così strettamente connesso con l'elemento liquido, le confraternite dei pescatori sono, naturalmente, tra le prime a formarsi. I pescatori di Chioggia fondano una prima associazione di mestiere già nel 792, nell'836 è la volta dei nicolotti, raccolti intorno alla Chiesa di San Niccolò dei Mendicoli.
Il governo pratica una severa politica ambientale per la conservazione e la difesa del patrimonio ittico, e dà voce all'esperienza acquisita dai pescatori, tanto è vero che i più anziani partecipano alle sedute del Consiglio quando vengono discussi problemi relativi alla laguna.
Nel 1227 l'Arte viene divisa in pescatori e compravendipesce. I pescatori, al ritorno dal lavoro con le loro tipiche imbarcazioni lagunari come il bragozzo o la togna, confluiscono nel punto ufficialmente deputato per la vendita all'ingrosso: il palo di Rialto, dove i compravendi fanno la stima del pescato per qualità e prezzo. L'offerta viene sussurrata segretamente alla rechia (cioè, all'orecchio), e la vendita al pubblico si farà nelle due grandi pescherie di Rialto e di San Marco. La prima dove si trova tutt'oggi, la seconda nei pressi dell'edificio della Zecca.
Quello del compravendi pesce è un mestiere lucroso e ambito che viene concesso solo a chi ha compiuto almeno cinquant'anni, e dopo esser stato pescatore per almeno venti anni. Una legge del 1433 stabilisce inoltre che bisogna essere originari di Venezia e avervi domicilio.
Nelle due grandi pescherie, una magistratura apposita controlla che il pesce marcio venga buttato e che siano rispettate le misure minime per la rivendita. Trucchi vecchi e nuovi connotano i venditori disonesti che insanguinano le branchie del pesce per farlo apparire morto da poco, o lo guarniscono con troppe alghe per nasconderne la cattiva qualità. Pene molto severe colpiscono i truffatori, che qui infatti non hanno vita facile.
Durante la giornata di vendita il pesce viene mantenuto in tinozze di acqua salata.
Una volta venduto, il pesce viene conservato con diversi metodi: la carpionatura, la salamoia, la conservazione sottolio, l'essiccazione e l'affumicatura.
Fonti documentaristiche medievali registrano che nelle case "ad ogni finestra, in ogni corte, sono stese collane di pesce che insieme ai panni sbiancano al sole". Pratica, questa, utilizzata ancora fino agli inizi del Novecento. Il pesce essiccato veniva poi ammorbidito con olio e condito con erbette di laguna, sale e pepe.
Si praticava anche la salagione casalinga, in questo caso il pesce veniva poi cotto su una base di cipolla e aceto, metodo che è alla base delle ricette di pesce dette "al saor", che qualche osteria propone ancora oggi.

lunedì 2 maggio 2011

Banchetti di Stato della Repubblica Serenissima

Nel Rinascimento la questione della tavola è centrale sotto il profilo politico, essa infatti travalica il semplice atto del mangiare e diventa una manifestazione di prestigio, inscenata per impressionare l'ospite, per far comprendere la vastità delle sue ricchezze, per aumentare il potere di chi organizza il convivio. Il banchetto quindi è scenografia, coreografia, finzione, spettacolo. E' arte raffinata che unisce intrattenimento, cibi ricercati, preparazione della tavola, per appagare allo stesso tempo occhio, palato e mente.
In particolare nelle festività pubbliche, Venezia costruisce un cerimoniale specifico studiato nei minimi dettagli. I banchetti tradizionali offerti dal doge nell'arco dell'anno sono cinque. Innanzitutto, San Marco, festeggiato il 25 aprile con un menù rituale costituito da una tenera primizia che il principe ha il privilegio di assaggiare per primo: si tratta dei piselli, presentati sotto forma di risi e bisi (riso con piselli) o di bisi con persuto (piselli con prosciutto). Quaranta giorni dopo Pasqua cade la Sensa (Ascensione), che si apriva con un antipasto di zuche confete (zucca caramellata) accompagnate da malvasia muschatella (vino greco dolce).
Queste due festività vengono onorate ancora oggi a Venezia, e da qualche anno sono tornati in auge i risi e bisi preparati alla vecchia maniera. Si è completamente persa traccia invece delle altre tre ricorrenze: Santi Vito e Modesto, il 15 giugno, di cui rimane il ricordo di un "pranzo bellissimo di pessi" offerto dal doge Andrea Gritti nel 1532; San Girolamo, il 30 settembre, nel corso della quale venivano conferiti ai patrizi alcuni importanti uffici della Repubblica; mentre sul quinto banchetto c'è incertezza: Giustina Michiel Renier nel suo libro "Origini delle feste veneziane" parla di Santo Stefano, Giuseppe Tassini di San Lorenzo.
Oltre a questi banchetti sono da ricordare i ricevimenti speciali in occasione di visite di sovrani e di ambasciatori, presso il Palazzo Ducale. Il tavolo preparato per queste occasioni è di forma ovale e gli invitati appartengono ai vari rami del governo e del corpo diplomatico, ma proprio per dimostrare che ci troviamo in una repubblica, il popolo non viene privato del diritto di assistere come spettatore a queste mense. I cittadini però si ritirano dopo il primo servizio: un usciere scuote le chiavi e quello è il tacito segnale della partenza, mentre al loro posto subentrano i musici. Terminato il banchetto, gli scudieri di palazzo presentano ad ogni convitato un paniere di dolci, mentre il doge si alza, si commiata e si ritira negli appartamenti privati.
Una curiosità: all'epoca era abitudine servirsi di posate personali, portate da casa, per praticità o per paura di essere avvelenati. A tavola, ambasciatori e personalità sono serviti dal proprio domestico, incaricato di riportare a casa la cassetta contenente posate e bicchiere facenti parte del coperto. Il nome deriva dal tovagliolo messo su tutto, e spiega l'origine della voce che ancora oggi troviamo nel conto del ristorante.

(fonte: C.Coco)

lunedì 7 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (2° parte)

Oltre ai calici, i prodotti greci colmano anche i piatti di Venezia. Dall'Epiro arriva una pregiata bottarga che, macerata nell'olio e tagliata a fettine sottili, viene servita come antipasto. S'importa anche un salatissimo formaggio chiamato zimotò, di cui si ha memoria fino all'inizio del Novecento.
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle

venerdì 4 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (1° parte)

Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il  nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".

venerdì 4 febbraio 2011

Il Fontego del Megio

Il Fontego del Megio (fondaco del miglio) si erge a fianco del Fontego dei Turchi sul Canal Grande. Poco si conosce di questa massiccia e sobria costruzione con la facciata in cotto rifinita da un coronamento merlato.
Le merlature costituiscono un elemento tipico della Venezia medievale che persisterà anche nelle epoche successive: queste aumentano la leggerezza e l'eleganza dell'edificio, ma non hanno (a Venezia) alcuna funzione difensiva.
Nel XII e XIV secolo, periodo bizantino, sono triangolari; probabilmente hanno preso la loro forma dalle antiche steli commemorative o forse dalla seghettatura delle palizzate che circondavano i conventi.
Nel XV secolo, periodo gotico, il materiale preferito è il cotto, giocato con forme sempre diverse ed originali.
Nel XVI secolo, periodo rinascimentale, le merlature sono per lo più in pietra d'Istria e lavorate in modo raffinato. L'artista che ha lasciato un esempio di nuovo tipo di merlatura fu Palladio: esso è ad arco rovesciato, come si può osservare a San Giorgio Maggiore.
Il Fontego del Megio risale al 1300 ed era destinato a deposito del miglio, usato dalla Repubblica nei periodi di carestia. Il miglio in genere era usato per i sudditi che, a differenza dei veneziani, sapevano rinunciare al pane bianco.
Raramente i veneziani ricorsero all'uso del miglio e quelle poche volte furono ricordate dal popolo con efficacia, come quando, nel 1570, morì il doge Pietro Loredan, il quale a causa di una carestia aveva ordinato che il pane fosse confezionato con il miglio: "El dose mejotto, che fa vender el pan de mejo ai pistori, xe morto!" (Il doge megiotto, che fa vendere il pane di miglio ai panettieri, è morto!).

Fonte (M.C.Bizio)

mercoledì 1 dicembre 2010

Cibi da mar

Se prendiamo alla lettera le lamentele dei passeggeri delle navi veneziane, ci facciamo l'idea che le cose commestibili a bordo fossero ben poche, in realtà non si mangia così male, ma tutto dipende, come si direbbe oggi, dal "pacchetto" che si sceglie!
I pellegrini che nel Medioevo vanno in Terrasanta, se sono poveri, provvedono al vitto per proprio conto, gli altri si accordano con la formula "all inclusive", che comprende anche i pasti a bordo. I più ricchi mangiano alla tavola del capitano, di solito ben rifornita.
Il nobiluomo veneziano Alessandro Magno, imbarcatosi nel 1557 alla volta di Cipro, parla di tre tavole: tra la prima (quella del capitano) e la seconda (frequentata dall'equipaggio specializzato), non c'è molta differenza, si mangia egualmente bene, Nella terza tavola la qualità scende e, ad esempio, il vino è allungato con l'acqua, anche perché è difficile conservarlo a bordo. Il rituale delle tre tavole che rompe la monotonia del mare e offre occasioni di contatti sociali, colpisce il francese Carlier de Pinon, che ci lascia una descrizione vivissima del suo viaggio verso Levante su una nave Veneziana. Ma qual è la lista delle vivande descritta da Carlier de Pinon? Formaggi, carni e pesci salati, olio, vino e acqua di base, ma poi nei porti le navi si riforniscono anche di frutta, uova e verdure. E' diffusa comunque l'abitudine di tenere a bordo animali vivi: pollame, pecore e vitelli che vengono macellati all'occorrenza.
Anche se l'alimentazione da mar, risponde innanzitutto all'esigenza di consumare derrate a lunga conservazione, è innegabile che ci sia anche una certa attenzione verso la salubrità dei cibi. Prevenire disturbi fisici legati al consumo dei cibi è considerato fondamentale soprattutto per gli uomini dell'equipaggio che devono mantenersi in forze per condurre la nave a destinazione. Una malattia piuttosto diffusa è lo scorbuto e per combatterla sulle navi veneziane si consumano rametti carnosi e gonfi di succo salato di una pianta spontanea della laguna veneta: la salicornia. Ad alto contenuto di acido ascorbico, si può mangiare fresca in insalata, o bollita come i fagiolini, ma sottaceto è una vera prelibatezza.
L'altra derrata marittima di cui i veneziani vanno fieri è il panbiscotto, una galletta di alta qualità e lunga durata, confezionata con farina di grano e burro, ma di cui la ricetta completa era ed è tutt'oggi segreta. Durante degli scavi eseguiti sull'isola di Creta, a metà Ottocento, vennero ritrovate delle scorte di panbiscotto risalenti alla guerra con i Turchi nel Seicento, ed erano ancora commestibili!


English version
Version française
(Fonte: C.Coco)

venerdì 26 novembre 2010

Il pranzo di Enrico III

Niente è lasciato al caso durante la visita del sovrano Enrico III re di Francia, nel 1574, all'Arsenale di Venezia: l'entrata attraverso il portale trionfale, l'ispezione ai reparti tecnici, le prodezze di uno sforzo organizzativo che consente di armare in un sol giorno - sotto lo sguardo sbalordito del sovrano - una galera di tutto punto. E per finire, la sosta nelle tre sale d'armi prospicienti il bacino dell'Arsenale Nuovo, una delle quali destinata al banchetto in onore del re di Francia.
Nella rustica cornice di legnami e ferramenta le sorprese devono però ancora iniziare. Accomodatosi col suo seguito per consumare un pranzo che si immagina senza fronzoli, Enrico resta meravigliato quando "prendendo egli il tovagliolo in mano, questi si ruppe in due pezzi, di cui uno cadde a terra: infatti tovaglie, piatti, posate, tutto sulla tavola era di zucchero! così simili al vero da ingannare chicchessia", come raccontano de Nolhac e Solerti.
Per impressionare il raffinato re francese, la Serenissima ricorre ad un'arma micidiale, protagonista di una storia speciale nella quale Venezia ha una larga parte: lo zucchero. Questa polvere dolcissima è allora una vera rarità. Si vende in farmacia come medicamento contro lo scorbuto e le malattie degli occhi ed entra in cucina, mescolata alle spezie, essenzialmente per fare status symbol.
Originaria dell'India, la canna si è acclimatata nel Mediterraneo orientale, ma sono gli arabi ad inventare lo zucchero sviluppandone il metodo di raffinazione e diffondendolo in Sicilia e Spagna. Nel mondo cristiano Cipro detiene il monopolio della coltivazione della canna, e la Repubblica di Venezia quello della vendita in tutta Europa. Gli spezieri veneziani si specializzano nella raffinazione dello zucchero grezzo e diventano abilissimi nel confezionare una gran quantità di ghiottissimi prodotti: sciroppi, confetture, cannellini, pignocade, diavolini, persegade, violette candite, nonché l'"acqua celesta di gioventù", una sorta di elisir di lunga vita.
La "polvere di Cipro" - come allora si chiamava lo zucchero - è d'obbligo anche nei matrimoni che contano. E' usanza regalare alla sposa una scatola di dolci, nel mezzo della quale si trova il bambin de zucaro (una statuetta di zucchero raffigurante un bambino), che la donna deve conservare e guardare spesso per fare un figlio bello come la statuetta.
Da questa tradizione deriva l'espressione "ti xe beo come un bambin de zucaro", che capita ancor oggi di sentire.


English version
Version française

domenica 25 luglio 2010

Baccalà in turbante

Tracce della presenza di una prima comunità giudaica a Venezia risalgono al 1396, quando la Serenissima dispone loro un terreno confinante col convento di San Nicolò al Lido per seppellire i loro morti.
“Gli ebrei sono più necessari dei panificatori” dice lo storiografo Marin Sanudo, che nel 1519 parla di circa 700 persone tra uomini e donne. La Repubblica infatti li accoglie anche per la loro utilità, visto che l’usura è proibita ai cristiani.
A dispetto della marginalità spaziale, Venezia privilegia ed è a sua volta privilegiata dalla diaspora ebraica.
Gli stranieri che durante il loro Grand Tour fanno tappa nella città lagunare vengono immancabilmente catturati dal ghetto, luogo di studio e di cultura cosmopolita. Un’andata (con biglietto di ritorno) verso al cultura ebraica è rappresentata dall’arte culinaria: un seducente viaggio attraverso la gola, pericoloso ma momentaneo, una sorta di traghetto dalla chiesa alla sinagoga che ogni cristiano può intraprendere varcando semplicemente il cancello del ghetto.
La cucina del ghetto veneziano è una fusione di elementi arabi, importati dei sefarditi attraverso la Spagna, e di piatti di origine tedesca arrivati con gli ashkenaziti. Ai primi si devono fantasiosi piatti di uova rosti nella brase, conciati con acqua di rose, zucchero e cannella, il bollo confettato, chiamato boyos de pan, buccellato o bussolà, un pane allungato o una treccia composta di farina, zucchero, uova, uva passa, anicini e olio d’oliva. Ai secondi si è debitori di una vasta gamma di piatti che vanno del gefilte fish o ‘pesce dolce alla todesca’, al kelbere krous, budella di vitello ripiene di grasso e farina, al mandel reis, un delicato riso alle mandorle.
Non mancano, malgrado le restrizioni, le carni: “Ciò che Dio proibisce, Dio permette in altre forme”, e l’oca diventa per l’ebreo l’equivalente del maiale per il cristiano. Nel trattare le sue carni i beccai hebrei si dimostrano insuperabili. Il suo grasso diventa valido sostituto dello strutto e anche del più costoso olio d’oliva, ma soprattutto vi si ricavano, salsicce, luganeghe, prosciutti, salami, insomma vere prelibatezze definite con termini volutamente ammiccanti ed equivoci, che viaggiano nella stessa direzione del maiale negato, con il quale l’oca condivide il calendario della vita e della morte.
Inevitabili anche le contaminazioni con la cucina veneta e se è impossibile non rilevare l’intreccio intrigante tra ‘galani’ e ‘orecchie di Amman’, meno problematico è l’accostamento di spinaci e baccalà (alias stoccafisso), giudaici i primi, fortemente veneziano il secondo (per essere arrivato dalle Isole Lofoten con capitano Pietro Quercini): è il Baccalà in turbante.
Ecco la ricetta.
Si porta lo stoccafisso a bollore, lasciandolo riposare per alcuni minuti; si dilisca, si trita a pezzettini e si mescola con tre cucchiai di farina. Si rosola nel burro, aggiungendo latte fino ad avere una crema densa. Si incorporano gli spinaci lessati. Si lega il composto con le uova, sale e un pizzico di noce moscata. Si mette il tutto in uno stampo rotondo col buco in mezzo e si cuoce in forno a bagnomaria. L’effetto del turbante è assicurato.