Visualizzazione post con etichetta curiosità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta curiosità. Mostra tutti i post

sabato 9 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 03

 


Il 26 marzo 1511 un tremendo terremoto colpiva la città facendo rovinare alcune case e vacillare le due colonne di Piazzetta San Marco.
La mattina seguente il patriarca Antonio Contarini, si presentava al Collegio Ducale per affermare che quel terremoto era necessariamente un castigo mandato dall'alto a Venezia per i tanti peccati che vi venivano commessi, primo fra tutti quello della carne.
In particolare il Patriarca volle ricordare un fatto avvenuto l'anno prima, quando alcuni giovani patrizi osarono ballare tutta una notte con le monache del convento della Celestia, al suono di pifferi e trombe, ed essendosi recato lui stesso a rimproverarle, tutte si misero alla porta rifiutando di farlo entrare.

Ma né il terremoto, né tanto meno la sua predica, sortirono particolare effetto, e tutto continuò come sempre.


Secondo la testimonianza di Marin Sanudo, agli inizi del Cinquecento, le meretrici in città sommavano ad 11.654, un numero impressionante se si pensa che la popolazione totale era di circa 130.000 persone!

Facendo un conto sommario, significa che circa una donna ogni cinque era prostituta di professione.

Ma, essendo così tante, non c'era abbastanza lavoro per tutte, così avvenne quella che forse è la prima manifestazione sindacale di protesta nel mondo: le meretrici scesero in Piazza San Marco per lamentarsi del poco lavoro e chiedendo un intervento dello Stato.

Le loro proteste furono ascoltate e il Maggior Consiglio dispose che ben mille di queste si trasferissero al campo di Mestre, ove era allora attendato l'esercito di terra veneziano. E si decise di licenziare tutte quelle fra esse che essendo foreste, abitassero a Venezia da meno di due anni.

Insomma lo Stato ascoltava e, se possibile, aiutava tutte le categorie professionali.


Ma ciò che colpisce maggiormente è che le meretrici non erano soggette ad alcuna tassazione!

Giordano Bruno nella sua commedia il "Candellajo", parlando di Venezia, dice: "Ivi le prostitute sono esenti da ogni aggravio. Certo, se il Senato volesse umiliarsi un poco e fare come gli altri, si farebbe un po' più ricco..." ma evidentemente la Repubblica era già sufficientemente ricca!


Tale Cesare Vecellio ci ha lasciato una descrizione minuta dei costumi delle meretrici dell'epoca: "Le pubbliche meretrici non stanno solo nei luoghi loro preposti, ma si trovano ovunque in città. Vestono, a volte, come uomini, nondimeno l'inegualità della fortuna fa sì che non tutte vadano vestite pompose allo stesso modo. Sulle carni portano camicia accomodata di sottigliezza ciascuna in base alla merce che ha da spendere. Molte di loro si trattengono per strada cantando canzonette amorose con poca grazia.

Alcune però, fra tante, oltreché colla bellezza del corpo, sollevavansi sopra le loro pari colle doti dello spirito e coll'educazione onde erano fornite. Esse erano più propriamente denominate "cortigiane". Le cortigiane si dedicavano alla musica e non si mostravano ignare alle lettere, e potevano paragonarsi in parte alla famose etére, sospiro degli uomini più distinti della Grecia. Non è quindi da stupirsi se la loro condizione destava l'invidia d'una tra le dame galanti di Brantome, la quale, avrebbe voluto cangiar tutto il suo avere in biglietti di banca e recarsi a Venezia per condurre colà vita cortigianesca, piacevole e felice."


Le cortigiane costituivano nella Venezia dei secoli d’oro una categoria sociale e professionale distinta da quella delle comuni meretrici.
Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le cortigiane si distinguevano non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro classe sociale, della cultura e talvolta anche del talento artistico e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.


Infatti, nascere nobile o comunque di famiglia ricca, non era poi così auspicabile, in quanto avevi solo due opzioni : andare in sposa a qualcuno che manco conoscevi, o finire in convento.

Ecco quindi che il mestiere di cortigiana appare come una via di fuga.

Una fuga che tra l'altro comportava anche la possibilità di ottenere un'indipendenza economica che ti slegava dagli obblighi famigliari.

Ecco perché così tante donne scelgono questo mestiere che le rendeva libere e al contempo ammirate e invidiate.


In questo secolo venne pubblicato addirittura un catalogo delle cortigiane con tanto di indirizzi, prezzi e nomi della relativa matrona (che spesso era la madre...).


La più celebre tra queste fu senz’altro Veronica Franco.
Nata da famiglia benestante si sposò giovanissima con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla vita libera. Era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse amicizie tra letterati e nobili, e venne anche ritratta da Tintoretto che le donò poi il quadro.

Ecco, il fatto in sé che un pittore come Tintoretto avesse ritratto la Veronica Franco ci dà una misura della considerazione sociale che avevano queste cortigiane.

La sua fama era tale che quando Enrico III re di Francia venne in visita a Venezia nel 1574 volle conoscerla e passò una notte con lei. A ricordo dell’incontro, Veronica donò al re il proprio ritratto e due sonetti.


Altrettanto celebre fu Angela del Moro, che per esser figlia d'uno zaffo (cioè di uno sbirro), era soprannominata la Zaffetta.
Il cardinale Ippolito de' Medici, venuto a Venezia nel 1532, scelse proprio la Zaffetta per la prima notte del suo arrivo in città.

E Pietro Aretino ne faceva il più sfoggiato elogio, invitandola in diverse occasioni a cena, unitamente al Tiziano e al Sansovino.


Si può ben dire che in Pietro Aretino fosse personificato il libertinaggio di Venezia, città da lui abitata per moltissimo tempo e quivi sepolto.

Dedito, per pubblica fama, alla pederastia, si tenne in casa, in epoche diverse, alcuni giovanotti, tra cui un certo Polo che fece maritare con Pierina Riccia, facendosela però cedere ad uso proprio ed amandola assai, non tanto però da non perseguitare in tutti i modi Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Serena. Che fece allora Gian Antonio per vendicarsi? Indusse Pierina a fuggire dalla casa di Aretino insieme a Caterina Sandella, altra amica dell'Aretino, dalla quale ebbe una figlia, Adria, il cui padrino di battesimo era il tipografo Francesco Marcolini, la cui moglie Isabella, intratteneva pur essa amorosa tresca collo scostumatissimo Aretino!

Pietro Aretino è conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso (almeno per l'epoca), fra cui i conosciutissimi Sonetti lussuriosi.

Ma scrisse anche opere di contenuto religioso.Questa, che oggi potrebbe apparire incoerenza, fu in realtà, per molti versi, un modello dell'intellettuale rinascimentale.

In una sua lettera scrisse: «Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; e tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice»
E dove avrebbe potuto vivere uno così, se non a Venezia?





sabato 2 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 02

 

Nell'articolo precedente abbiamo visto qualche esempio di scandalo tra i nobili veneziani.

Ma l'apice della sfrontatezza era raggiunto dalle monache dei conventi. In particolare i conventi patrizi, i quali venivano chiamati "doppi" in quanto frati e monache vi abitavano insieme. Talvolta le monache si tenevano qualche frate in vicinanza con il pretesto di venir da essi guidate negli affari spirituali.

Il Maggior Consiglio emanava quindi, nel 1385, una legge con cui si imponeva che il confessore delle monache fosse di non meno di 60 anni!

Ma il costume di recarsi nei chiostri delle monache era di largo appannaggio anche dei laici, e così feste e divertimenti non mancavano per queste suore, che infatti avevano trasformato il loro parlatoio in un elegante salotto sede di concerti e spettacoli vari, con un continuo "pellegrinaggio" di giovani cavalieri mascherati.


Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana, Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del Settecento:

Vestono leggiadrissimamente con abito bianco alla francese, il busto di bisso a piegoline, un piccolo velo cinge loro la fronte, sotto la quale escono li capelli arricciati e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.

Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate.

Per questo motivo in tutta la città v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, che in dialetto erano chiamati condon, termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom, di cui però non è mai stata accertata l'esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere” = "proteggere".

Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli, ed è per questo tra l’altro che la sifilide veniva detta mal francese; la cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano mal napolitaine!


A Venezia la legge prevedeva pene severe per i "monachini", cioè le persone che intrattenevano relazioni amorose con le monache, che andavano dalle multe, al carcere, fino alla pubblica frusta e al bando.


Ma se da una parte la legislazione veneziana si occupava di questi problemi, non trascurava l'argomento della pubblica prostituzione, giacché si legge in diversi decreti dell'epoca che le meretrici erano considerate "omninamente necessarie in Venezia".

Tutte le meretrici erano sottoposte alla sorveglianza dei Signori della Notte e dei Capi di Sestiere, tra le varie limitazioni a cui erano costrette ricordiamo che non potevano frequentare osterie, né recarsi in Chiesa durante la Messa della domenica, né indossare gioielli.


Un decreto del 1360 stabiliva che tutte le meretrici dovevano essere confinate in un'area nei pressi della chiesa di San Matteo di Rialto (chiesa poi scomparsa). Zona ribattezzata "Castelletto" forse perché c'erano delle torri sui tetti delle case, come usava all'epoca.

Tra le altre regole ricordiamo: l'obbligo di portare al collo, come segno distintivo, un fazzoletto giallo; approssimandosi la notte, dovevano, allo scocco della prima campana di San Marco, recarsi tutte nel già menzionato Castelletto, mentre durante il giorno potevano circolare liberamente per la città, eccetto durante le feste di Natale e di Pasqua, nonché in tutte le feste dedicate alla Madonna.


Ad ogni casa del Castelletto era preposta una direttrice chiamata "matrona" a cui spettava di dividere ogni mese, fra le sue dipendenti, i guadagni conservati in una cassa, cassa che veniva aperta solo in presenza di un rappresentante di Stato.

Questo per garantire che le meretrici fossero correttamente retribuite.

Sì, perché se da un lato queste meretrici subivano leggi che limitavano la loro libertà, da altre leggi venivano protette e difese. Si provvide ad esempio a controllare che coloro i quali ne avessero riscattate dalle matrone, non le tiranneggiassero, e che coloro che ne avevano sposate non continuassero a tenerle nel Castelletto.

Si deputarono delle guardie armate che tutte le notti sorvegliassero il loro quartiere perché nessuno potesse far loro del male, e si proibì di entrare nel Castelletto armati, sempre al fine di proteggerle.

Insomma niente veniva lasciato al caso nella Repubblica Serenissima, qualunque mestiere era regolamentato e protetto. 

 


 



lunedì 28 dicembre 2020

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 01

 

Nel quattordicesimo secolo Venezia raggiunse l'apice della sua grandezza.

Grandi erano le ricchezze che vi transitavano e di conseguenza numerose le persone che vi risiedevano stabilmente o per limitati periodi legati a trattative commerciali.

Naturalmente tra i vari servizi di accoglienza offerti non mancava certo la prostituzione.

Le nuove leve, se così possiamo chiamarle, provenivano per lo più dalle numerose orfane (soprattutto figlie illegittime di nobili, abbandonate) che popolavano le strade della città.

Alcune di queste venivano salvate da organizzazioni religiose o statali, ma molte erano quelle che non si riusciva a soccorrere.


Tra i soccorritori ricordiamo fra' Pieruzzo d'Assisi, francescano, che di contrada in contrada raccoglieva gli orfani che riusciva a trovare per portarli nelle case di proprietà dei frati intorno alla chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1346 aprì un vero e proprio istituto per trovatelli in parrocchia San Giovanni in Bragora col nome di Pietà. Primo dei quattro cosiddetti "ospedali" nei quali ai bambini veniva insegnato un mestiere mentre alle bambine si insegnava musica e canto.


Ma queste attività di assistenza non erano certo in grado di arginare del tutto il fenomeno della prostituzione, tanto più che non necessariamente le meretrici erano orfane abbandonate, anzi spesso erano avviate al mestiere dalle loro stesse madri.

Inoltre capitava anche che alcune ragazze venissero rapite alle loro famiglie nelle campagne dell'entroterra per costringerle a prostituirsi in città.


Alcuni storici dell'epoca lamentavano il degrado dei costumi dell'epoca, ma questi costumi non sono certo mai mancati nella storia dell'uomo presso qualunque società; ciò che distingueva però la prostituzione a Venezia era che qui era strettamente regolamentata dallo Stato, ma ne parleremo meglio in un prossimo articolo.


Per pura curiosità possiamo narrare qualcuna delle storie più celebri che diedero scandalo all'epoca.

Ad esempio la tresca tra il doge Andrea Dandolo e Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti, duca di Milano.

Isabella, dopo aver adornato di molte ramosa corna la testa del povero marito, simulò nel 1347 di aver fatto voto di recarsi a Venezia per la festa della Sensa.

Partì quindi da Milano, con il suo corteo di dame, e arrivò a Venezia accolta con grandi feste e onori dalla Repubblica. Ma appena giunta in città, si diede alla più sfrenata licenza, e il doge stesso, Andrea Dandolo, fu uno di quelli con cui largheggiò dei propri favori, dando agio anche alle dame del suo seguito di ricercare i propri piaceri (per l'esattezza nel documento dell'epoca viene utilizzata la parola "pastura").

Il viaggio, possiamo letteralmente dire, di "piacere" di Isabella, costò addirittura la vita al povero Luchino, il quale avendo avuto notizia dei sollazzi della moglie a Venezia espresse l'intenzione di vendicarsi, ma fu prevenuto da Isabella con un veleno che lo portò brevemente alla morte. 

Altro esempio riportato nelle cronache è la storia di Lodovica Gradenigo, consorte del doge Marino Falier. Si narra infatti che durante una festa da ballo datasi in Palazzo Ducale la sera del Giovedì grasso del 1355, il nobile Michele Steno veniva cacciato dalla sala per alcuni eccessi dimostrati durante la festa, il quale però si vendicò scrivendo sopra il seggio del Falier il noto epigramma: "Marin Falier da la bela mugier. Altri la gode e lu la mantien!". Si dice che Marino Falier se la prese così tanto per questa frase che decise di ordire la nota congiura di Stato, che fu poi repressa e che terminò con la decapitazione del doge.


Interessante, anche se per motivi diversi, è la storia di Luigi Venier, figlio del doge Antonio Venier, il quale era l'amante della moglie del nobile Giovanni dalle Boccole. Accadde che la moglie si stufò di Luigi e non volle più donargli le sue grazie, questi però non la prese bene e pensò di attaccare sul ponte di Cà dalle Boccole due grandi corna accompagnate da una scritta volgarmente pesante contro la famiglia Dalle Boccole, e per questo veniva catturato e condannato a due mesi di prigione, seppur figlio del doge stesso. E' interessante il fatto che il Doge Antonio Venier, il quale avrebbe potuto intervenire per far almeno diminuire la pena, lasciò che la giustizia facesse il suo regolare corso, affermando che la giustizia è uguale per tutti.


Abbiamo visto qualche scandalo legato al mondo della nobiltà, ma anche i preti non volevano esser da meno e innumerevoli sono i casi di scandalo raccontati nelle cronache. Ricordiamo ad esempio, don Stefano Pianigo, piovano di San Polo, che sedusse una vedova, tale Cristina, e poi la diede in sposa a tale Nicoletto d'Avanzo, col patto di potersi congiungere con la donna, quando più gli fosse piaciuto.


 

mercoledì 15 luglio 2020

Perché si dice "attaccare bottone"

Sì, lo so, nessuno dice più “attaccare bottone”, è una roba da vecchi; ma io sono vecchio, e magari tra di voi c'è qualcuno che come me è nato e cresciuto nel secolo scorso e ancora si ricorda di questo modo di dire, e magari non sa perché mai si dica “attaccare bottone” riferito all'atto del rivolgere la parola ad una ragazza, o un ragazzo, che ci sembra interessante e con cui vorremmo... sì insomma avete capito.

In ogni città, grande o piccola, c'è sempre una strada, una piazza, un luogo deputato al camminamento pigro il cui unico fine è guardare, o farsi guardare, sa mai che magari si incontra una ragazza, o un ragazzo, piacevole.
In alcune città si chiama “fare le vasche”, in altre si dice “fare lo struscio” e così via, a Venezia si diceva “fare il liston”.
Uno dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo la piazza era erbosa, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro, chiacchierando e facendosi notare.
Quella comoda lista selciata veniva chiamata appunto liston.
Lì alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando e lanciando sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Di queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo Casanova nelle sue "Memorie".

Prima di continuare però dobbiamo fare un salto sull'isola della Giudecca, presso l'ex ospizio detto delle Zitelle (non nel senso di donne non sposate, ma di fanciulle orfane). Opera del Palladio tra l'altro.
Ora, dovete sapere che a Venezia, ai tempi della Repubblica intendo, il meccanismo sociale per salvare gli orfani in città (o i bambini poveri in generale) era sorprendentemente moderno ed efficiente.
Gli orfani venivano raccolti dalle strade e li si introduceva in strutture specifiche dove veniva loro insegnato un mestiere; per evitare appunto che i maschi si dessero alla delinquenza o all'accattonaggio, e le femmine alla prostituzione.
Alle fanciulle portate alla struttura delle Zitelle veniva insegnato il mestiere della sarta. Imparavano quindi il cucito in modo che in futuro avrebbero potuto mantenersi.

Nel Settecento queste ragazze si specializzarono nella creazione del famoso scialle veneziano; confezionato in seta e in pizzo per le dame, o in lana per le popolane, ma sempre rigorosamente con lunghe frange.

Tra l'altro lo scialle era in qualche modo simbolo di rispettabilità; l'uso era infatti vietato alle meretrici.

Ora dobbiamo immaginare queste dame passeggiare appunto lungo i famosi liston, agghindate con il loro scialle.
Quando adocchiavano un cavaliere che ritenevano interessante (perché diciamocelo, a noi uomini piace pensarci cacciatori, ma alla fine son loro che decidono), dicevamo, quando incrociavano un giovanotto di bell'aspetto, con un rapido gesto della mano prendevano un lembo dello scialle e lo facevano volteggiare facendo svolazzare con maestria le lunghe frange, le quali andavano ad impigliarsi sui bottoni della giacca del cavaliere … ecco perché si dice “attaccare bottone”, “tacar boton” in veneziano!

So cosa state pensando: e se il giovanotto in questione non aveva la giacca con i bottoni? Eh non lo so! Trovavano un altro modo, fioi, di sicuro una dama veneziana non si arrendeva per così poco!

So che in altre parti d'Italia l'espressione “attaccare bottone” ha un significato diverso, tipo “tediare qualcuno con un discorso lungo e noioso” ma a me piace di più la versione veneziana ;)



CIAO


No, non vi sto salutando, non ancora per lo meno … voglio parlarvi proprio della parola “ciao”.
Molti di voi già lo sanno, ma magari c'è ancora qualcuno che non lo sa: la parola “ciao” è una parola veneziana, o meglio, deriva dalla parola veneziana 'sciavo, che significa “servo” (“servo” non “schiavo”).
Da 'sciavo divenne 'sciao infine ciao.
Quando due gentiluomini si incontravano si salutavano dicendo “'sciavo vostro” nel senso di “sono servo vostro” “sono al vostro servizio”
Ancora oggi in Veneto se chiamate “Toni” l'altro vi risponde “comandi!”
Abbreviato in “mandi” dai friulani …

A proposito di servi e di schiavi, pochi sanno che la prima nazione al mondo ad abolire il commercio degli schiavi fu la Repubblica di Venezia nel 960, almeno ufficialmente, poi in realtà la legge veniva spesso disattesa, ma intanto questi già prima dell'anno Mille ci avevano quanto meno pensato …
C'è anche da dire che la motivazione non era solo umanitaria, ma anche pratica: gli schiavi non pagano le tasse, gli uomini liberi sì!

Resta il fatto che quando dite “ciao” a qualcuno gli state dicendo “sono al tuo servizio”.

Bizzarramente la parola “ciao” negli ultimi decenni si è diffusa anche al di fuori dell'Italia, curiosamente però viene usata quasi sempre unicamente per il commiato … mah, questi foresti che non conoscono la lingua veneziana!



venerdì 20 ottobre 2017

Sistema numerico veneziano

[ se non avete tempo e/o voglia di leggere, in fondo al testo trovate il video del post ;) ] 

Presso la maggior parte delle civiltà che si sono sviluppate su questo pianeta, il sistema numerico si basa sul numero 1.
Nel senso che si parte a contare dal numero 1 e si procede man mano a contare...

A Venezia invece, tutto si basa sul numero 2. 
 
Vi faccio un esempio concreto: l'altro giorno ero in sala d'attesa del medico di base, e c'erano due gentildonne che se la contavano su. Ad un certo punto una dice: "Mia sorella è stata operata 3 volte: do e n'altra " …

Capite? Si parte comunque dal due e poi si conta, a salire...

D'altra parte, l'istituzione stessa della venezianità più pura, cioè i bacari, hanno nomi assai significativi:
  • Do Mori
  • Do Spade
  • Do Colonne

Come dite? Non sapete cos'è un bacaro?
Mmhhh... come spiegare? … Non esiste un termine adeguato corrispondente in italiano... diciamo che è un po' enoteca, un po' street food, un po' baretto confessionale, un po' caffè letterario... La loro missione è quella di sempre: dar da bere a veneziani e foresti fornendo anche alcuni "piatti di credenza" vale a dire salumi e formaggi, insieme a quella piccola e intrigante "cucina in briciole" che va sotto il nome di cicchetti.

Alle orecchie di un italiano, il termine “cicchetto” suona come qualcosa da bere, ma in realtà la parola che identifica questi piccoli frammenti di un discorso amoroso-culinario, deriva dal latino ciccus, cioè “piccolo boccone”. Un boccone quindi che può assumere mille forme, ma si tratta pur sempre di qualcosa da masticare, non da bere.

Ma sto divagando, torniamo al sistema numerico veneziano...
sì perché anche le farmacie non sono da meno:
  • Alle due colonne
  • Due ombrelli
e così via...

D'altra parte, scusate, ma in Piazzetta San Marco, di colonne ghe ne xe do, mica una!


giovedì 22 dicembre 2016

Il doge di Venezia non veniva pagato

Nessun doge di Venezia, così come nessun'altra carica pubblica elettiva di alto e di altissimo livello ai tempi della Serenissima, percepiva alcun compenso per i servigi che rendeva allo Stato; servire la Repubblica era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita.
Anche per questo, in genere, il doge veniva eletto tra i nobili dotati di maggior patrimonio personale: essere a capo della Serenissima era infatti senz'altro un onore grandissimo, ma anche un onere fortissimo.
Il doge versava i contributi allo Stato alla pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato con il bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua a lui dedicata: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere - specialmente quelle importanti - subiva le attenzioni e le ingerenze della Signoria.
Il doge era una sorta di prigioniero a Palazzo Ducale: non poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano stati conferiti; non poteva ricevere di sua iniziativa nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o riceverne. Non poteva fare donazioni, se non all'interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne.
Non poteva più curare i suoi interessi mercantili ed economici (un po' quello che succede con il cosiddetto blind trust che viene applicato ai presidenti degli Stati Uniti) e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine delle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure delle Magistrature di Stato.

(Estratto dal nuovo libro di Alberto Toso Fei: "Forse non tutti sanno che a Venezia...")

giovedì 26 maggio 2016

Francesco Petrarca a Venezia e le Corderie della Tana

Nell'estate del 1362, da Padova, Francesco Petrarca avvia trattative con la Repubblica di Venezia, queste le condizioni: Petrarca lascia in eredità la sua biblioteca alla Repubblica, qualora la Repubblica gli offra una casa in città.
Senza intralci burocratici vien presa subito la decisione (abbiamo i verbali della seduta del Maggior Consiglio, 4 settembre 1362), e viene offerta al Petrarca una casa che gli piace moltissimo: il palazzo Molin.
Chi conosce un po' Venezia sa che ancora al giorno d'oggi di palazzi Molin ce ne sono diversi. Quello dove viene a stare il Petrarca è un altro ancora che non c'è più. Possiamo immaginarlo sulla Riva degli Schiavoni. Venendo dal Palazzo Ducale, dopo il ponte della Paglia (con vista sul passaggio aereo detto “dei sospiri”), dopo il Danieli (grondante letteratura e pettegolezzi), dopo la chiesa della Pietà (dove non suonò mai Vivaldi), si scavalca il rio Sant'Antonin sul ponte del Sepolcro, subito a sinistra il palazzo Navagero, poi sede del Presidio Militare già caserma Aristide Cornoldi, già convento del Sepolcro. La casa del Petrarca era qui (lapide).
Il Petrarca ci lascerà opere in latino con la descrizione di quel che vede dalle sue finestre. Una volta vengono ad ormeggiare proprio qui due navi grandi come la casa, i loro alberi si ergono molto più in alto dei tetti. Poi una notte, stanco ed assonnato, ha appena cominciato a scrivere una lettera quando sente strepiti e grida. Sale di corsa in cima a una delle due torri che ha la casa e vede che una delle due navi sta salpando. Le stelle sono coperte dalle nubi, il vento scuote la casa dalle fondamenta, il bacino di San Marco è tutto un tumulto, ma la nave prende il largo. È carica di merci pesanti, gran parte dello scafo è immersa, eppure la nave sembra una montagna galleggiante. La nave, gli dicono, è diretta alle foci del Don. Mentalmente il Petrarca le augura buon viaggio, e torna a finire la lettera che stava scrivendo.
Cosa pensate voi quando pensate al Don? Fiume russo, uno dei più lunghi d'Europa. Allora però si chiamava Tanai (dal greco Tánaïs, dal nome della città di “Tana”). In quel sonetto, che nel Canzoniere come lo conosciamo noi, porta il numero 148 inaugura la tradizione di flatus vocis che durerà almeno fino ad Alessandro Manzoni: “scoppiò da Scilla al Tànai / dall'uno all'altro mar”.
I veneziani a Tana, lungo il fiume Tanai (oggi Don), ci andavano ad acquistare la canapa (ma non solo), che poi avrebbero usato in una grande area coperta dell'Arsenale, per fabbricare le corde per le navi (ma non solo).
Lungo i muri esterni delle Corderie (edificio a tre navate, con 84 colonne, avente una lunghezza di 316 metri), troviamo calle e campo della Tana
 
Per inciso, della biblioteca di Petrarca a Venezia rimase ben poco e di quel poco quasi nulla è sopravvissuto all'umidità...

Quale città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirrannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita. Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”
(Francesco Petrarca) 



(fonte: G. Dossena) 

martedì 5 gennaio 2016

Venezia e la letteratura italiana

A Venezia nel marzo 1505 Aldo Manuzio stampa Gli Asolani di Pietro Bembo. Sono dialoghi in prosa, in tre giornate, nel giardino della ex regina di Cipro, Caterina Corner, a Asolo.
I dialoghi di Asolo si svolgono fra tre giovani e tre donne. Parlano dell'amore da tre punti di vista. L'amore fa soffrire ("amore senza amaro, non si puote"). L'amore è fonte di gioia. L'amore è desiderio di vera bellezza, e la bellezza "non è altro che una grazia che di proporzione e di convenienza nasce e d'armonia delle cose"; anzi la vera bellezza è quella divina. 
Siamo così ad una manifestazione di amor "platonico". Chi si interessa a queste cose ritroverà un personaggio chiamato Pietro Bembo che parla di amor platonico nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Qui negli Asolani c'è qualcosa di più dei discorsi sull'amore; i dialoganti citano o recitano volta per volta poesie composte da loro stessi (cioè da Pietro Bembo).
Gli Asolani sono il manifesto del bembismo, o meglio del "petrarchismo bembesco". Fissato col Canzoniere aldino del 1501 il criterio linguistico e stilistico, Gli Asolani fissano i criteri di gusto, ideologici, antropologici della poesia. Il Bembo indica nel Petrarca (che aveva soggiornato a Venezia dal 1362 al 1367) un ideale di vita e di amori, oltre che di poesia e di lingua. Tale vita, tali amori, vanno imitati.
Questa operazione 1501-1505 di Manuzio-Bembo ha un successo immediato, ampio, profondo. Il modo di poetare, la lingua, gli ideali di vita e di amori così propugnati resteranno più o meno validi  in tutt'Italia per tre secoli almeno, con gli opportuni adattamenti regionali.
Dopo Petrarca pochi han potuto scrivere senza subirne l'influsso. La lingua, lo stile, la vita, gli amori del Petrarca mettono rami lunghi che arrivano per esempio a Giusto dei Conti e a Matteo Maria Boiardo.
Con il Canzoniere aldino nasce una certa unità d'Italia, con gli Asolani l'unità si consolida.
I seguaci del petrarchismo bembesco sono uguali in tutt'Italia. Può avere senso raggrupparli in area veneta e lombarda, area tosco-romana, area meridionale: ma quello che conta è proprio il fatto inverso, unitario, per cui si scrive nello stesso modo dalla valle del Sinni a Casale Monferrato.
Nell'uniformità del mucchio, ovviamente, se qualcosa si distingue sono i particolari biografici. Massimo interesse suscitano i particolari biografici delle poetesse (nessuna stagione della letteratura italiana ha tante poetesse come questa).
Vittoria Colonna è una gran dama (ritratta da Sebastiano del Piombo e da Michelangelo, con cui intrecciò un lungo rapporto di amicizia); è una vera signora anche Veronica Gambara (scrive della bellezza di Brescia, poi sale un po' nella nostra considerazione perché va a Correggio). La padovana Gaspara Stampa è di famiglia nobile ma fa la cantante e la cortigiana. L'altra padovana, Isabella Adreini, fa l'attrice. La romana Tullia d'Aragona è cortigiana ma viene dispensata dal portare il velo giallo per meriti poetici. La veneziana Veronica Franco è cortigiana senza dispense, e sulla sua professionalità sappiamo tante cose...
Tra questi poeti e poetesse nessuno è esente da un certo petrarchismo bembesco. Nei casi più estremi questi poeti non scrivono ma trascrivono. Prendono pari pari parole e frasi, emistichi e versi del Petrarca. Chi studia queste cose vi dirà, per esempio, che in due canzoni di Pietro Bembo (totale 136 versi) ci sono solo 8 parole che non hanno riscontro nel Petrarca. E andava a memoria...
Il petrarchismo bembesco è un movimento sociale serio. Guai a chi non riesce ad inserirsi.
Il veneziano Antonio Brocardo è amico di Pietro Bembo, e scrive come Pietro Bembo comanda. Poi entra in polemica col maestro, e tutti gli danno addosso con una tale ferocia che Antonio Brocardo muore di crepacuore.
C'è chi per lealtà vuole strafare: il veneziano Celio Magno scrive una canzone petrarchesca bembesca intitolata Deus che sembra sia la più lunga della letteratura italiana. 


Asolo (sdrucciolo, àsolo) è al giorno d'oggi un comune in provincia di Treviso. Il castello di Asolo, in gran parte demolito nel 1820, era il palazzo pretorio, riservato ai podestà veneziani. Venuto a morte nel 1473 Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, la Serenissima costringe la vedova, Caterina Cornaro, ad abdicare a suo (della Serenissima) favore (1479), pagandole una pensione e dandole la signoria di Asolo. La vedova vive in questo castello.
Caterina è un donnone tizianesco (il ritratto agli Uffizi è di Tiziano e bottega), e sta qui con dodici damigelle, un nano nero chiamato Zavir con funzioni di giullare, e ottanta giovanotti con funzioni varie. Morirà nel 1510.
Alcuni dicono che nel castello di Asolo si fanno feste meravigliose, ma è dubbio, aggiungono, che vi si accolgano letterati e artisti a dialogare sull'amor platonico. Pietro Bembo può essere tra gli ospiti perché è parente della padrona di casa e ha fama di uomo di mondo.
Leggere su un'enciclopedia le voci dedicate ai Cornaro dà poco sugo. Di palazzi Corner, Venezia è piena. Il più famoso è progettato dal Sansovino per uno Jacopo Corner nipote di Caterina.
Affascinanti invece le voci che le enciclopedie dedicano ai Lusignano. Il castello di Lusignan nel Poitou risale al principio del IX secolo. Si sono proprio estinti con Giacomo II nel 1473. Quando Marcel Proust fa dire a uno dei suoi Guermantes "noi discendiamo in linea diretta dai Lusignano", scherza.
Insoddisfacente, generica la descrizione del giardino che dà il Bembo negli Asolani. Ad ogni buon conto il poeta inglese Robert Browning distruggerà il giardino per farcisi costruire una villa.
Pochi sono i ricordi di Caterina Cornaro che può scovare in Asolo il turista al giorno d'oggi. Al fantasma della regina di Cipro si è sovraimpresso quello dell'attrice Eleonora Duse, qui sepolta. Ma era morta a Pittsburgh (Pennsylvania), nel 1924. Era nata nel 1858 a Vigevano.

domenica 26 aprile 2015

Pietro Aretino, il cortigiano letterato nella Venezia del Cinquecento

Arriva a Roma nel 1517 un uomo di venticinque anni, nato ad Arezzo. Non s'è mai saputo il nome del padre e non ci ha mai tenuto neanche lui a saperlo. L'han battezzato Pietro, e si fa chiamare Aretino dal nome della città natale. Passa l'adolescenza a Perugia, dove probabilmente fa buoni studi, ma non studi latini. Un letterato italiano che non sa il latino. Digiuno di educazione umanistica.

Fa il pittore, poi smette. Comincia a scrivere, poi smette.
A Roma non trova un protettore, cerca di farsi largo scrivendo cose varie: conquista una buona notorietà scrivendo delle pasquinate tra il 1521 e il 1522.
Le pasquinate dell'Aretino sono eccellenti, perché l'Aretino ha grandi doti di scrittore satirico; ma solo a Roma si ha questa occasione di scrivere cose da appiccicare alla statua di Pasquino.
Con il nuovo papa Adriano VI, l'Aretino non sente tirare aria buona e se ne va in giro tra Bologna, Arezzo, Firenze, Mantova, Reggio nell'Emilia; ora comincia ad avere dei protettori: il cardinale Giulio de' Medici, il capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere.
Torna a Roma nel 1523. Comincia ad essere sulla trentina e fa un passo avanti: dopo le pasquinate che gli avevano dato i primi successi, si butta sul filone erotico.
L'erotismo, nella letteratura italiana di questi anni, non è merce né rara né clandestina. Ma Pietro Aretino fa qualcosa di più, come chi faccia fumetti o fotoromanzi anziché racconti: parte da una base di erotismo figurativo. Scrive sedici sonetti a commento di sedici incisioni che Marcantonio Raimondi ha cavato da sedici figure di Giulio Romano. Suoi coetanei, suoi amici.
Questi sonetti sono noti con il titolo di Sonetti lussuriosi o Le Posizioni o I Modi. Il secondo titolo fa capire che costituiscono un piccolo Kama-sutra.
Sapete tutti che il Kama-sutra (“aforismi sull'amore”) è un trattato scritto in sanscrito fra il IV e il VII secolo dc, attribuito a Vatsyayana, e rientra nella letteratura religiosa indiana facendo del Kama, amore fisico, uno dei tre fini dell'esistenza.
Mentre del Kama-sutra tutti parlano tranquillamente, c'è ancora qualcuno che parla con qualche imbarazzo dei Modi dell'Aretino. Forse gli fa senso che siano scritti nella sua lingua materna. Alcuni libri di Storia della letteratura italiana non fanno menzione di questa opera di Pietro Aretino.
Chi vuol seguire il filone erotico nella storia della letteratura italiana trova i Modi dell'Aretino un poco freddi in confronto a certe poesie di Maffio Venier (Venezia, 1550 – 1586) o del grande Giorgio Baffo (Venezia, 1694 – 1768).
Anche nella disinvolta Roma di questi anni, i Modi fanno comunque scandalo. Un vescovo lo fa accoltellare il 28 luglio 1525. Questo vescovo si chiama Gian Matteo Giberti (certi suoi scritti avranno peso sulle decisioni del Concilio di Trento).
Dello stesso anno è la prima redazione di una commedia, La Cortigiana, che Pietro Aretino completerà e stamperà solo in seguito. E' il rovescio degli ideali del Cortegiano di Baldassar Castiglione, che circola in questi anni, manoscritto.
Dunque Pietro Aretino non vola solo nei cieli astratti dell'erotismo, ma si impiglia anche in questioni ideologiche che toccano i fondamenti della società dell'epoca. Così le coltellate si spiegano un po' meglio.
Come nel 1517 aveva dovuto lasciare Roma per colpa delle pasquinate, così per colpa dei Modi e della Cortigiana e forse di qualcos'altro che non sappiamo, Pietro Aretino deve nuovamente lasciare Roma.
Arriva a Venezia nel marzo del 1527. Ha trentacinque anni. Si sistema bene, con la protezione di potenti patrizi e impianta una dinamica attività editoriale con vari stampatori, tra cui Francesco Marcolini (della cui moglie diventerà amante).
Questo Marcolini stampa anche libri musicali con tipi mobili secondo un sistema di sua invenzione.
Pietro Aretino per primo riconosce nella stampa uno strumento economico e politico, E' il primo manager dell'industria culturale.
Fa stampare opere proprie, scrive opere proprie in funzione della loro pubblicazione a stampa, e scrive cose diverse a seconda dei momenti, cercando di indovinare i gusti del pubblico e tenendo conto dell'aria che tira a livello politico.
Le cose che scrive Pietro Aretino vanno dalla letteratura erotica a quella religiosa o agiografica. Tocca tutte le forme: sonetti e versi vari, commedie, tragedie, poemi cavallereschi, dialoghi, lettere.
Per le lettere, inventa qualcosa di nuovo: raccoglie in volumi lettere che scrive e lettere che riceve, come un editorialista d'oggi. E' una corrispondenza che coinvolge tutti i personaggi illustri del suo tempo, papi, imperatori e re. Pietro Aretino definisce se stesso “segretario del mondo”. Ludovico Ariosto lo definisce “flagello dei principi”, perché sa adulare ma anche minacciare e ricattare personaggi come Francesco I e Carlo V.
Nel campo delle arti conosce tutti e intrattiene rapporti eccellenti con Tiziano, che gli fa un ritratto spettacoloso (agli Uffizi di Firenze). Pietro Aretino ha gusti precisi ed è bravissimo a descrivere opere d'arte. Bisognerà arrivare a Giovan Battista Marino (nel Seicento) per trovare cose simili, ma l'Aretino è più bravo.
La casa di Pietro Aretino a Venezia è un centro di potere. E' una casa bella, luminosa, allegra, piena di donne e di figli di Pietro Aretino e di amici fidati, che entrano ed escono, come entra ed esce, a fiumi, il denaro.
La casa sta sul Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi Apostoli; dalle finestre si vede il ponte di Rialto, non quello che vediamo noi oggi, che sarà costruito tra il 1588 e il 1592; ma quello in legno che si vede nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio (alle Gallerie dell'Accademia).
Pietro Aretino, vede, quando si affaccia alla finestra:
mille persone e altrettante gondole su l'hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l'incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d'huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i burchi, le caccie e l'uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni.
Nel 1551 trasloca a Palazzo Dandolo, sempre sul Canal Grande (poco lontano da Palazzo Bembo, dove abita Pietro Bembo).
Il rio che bagna un lato della sua casa, vien detto “rio de l'Aretino” e le donne che transitano a casa sua, per piacere o per dovere, si fan chiamare “le Aretine”.
Secondo una leggenda a palazzo Dandolo Pietro Aretino tanto ride per una storia che gli son venuti a raccontare sulle sue sorelle, ospiti di un bordello di Arezzo, tanto e tanto ride che casca dalla seggiola e muore.



lunedì 16 febbraio 2015

San Marco, il leone alato e la Repubblica di Venezia

Il leone alato (con il libro, ma anche alle volte con un calamaio) è il simbolo dell'evangelista San Marco, patrono della Serenissima Repubblica di Venezia. 
I quattro evangelisti sono tutti accompagnati da un simbolo preciso: oltre al leone di San Marco, l'iconografia ricorda il toro di San Luca, l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni.
L'origine di questi simboli è antichissima e sembra doversi trovare in un brano di Ezechiele (1, 5-14) con la visione di Dio in trono circondato da quattro esseri animati (tetramorfo). Nell'Apocalisse la visione è di Cristo in trono circondato da 24 vegliardi, ciascuno con un'arpa, da sette lampade di fuoco e dalle stesse quattro creature di Ezechiele che divengono poi i simboli degli evangelisti.
Nel Medioevo, gli esegeti trovarono anche la giustificazione dei simboli e precisarono che San Marco è rappresentato dal leone in quanto il suo Vangelo (il più breve) inizia con la voce maestosa di Giovanni Battista che "ruggisce" nel deserto "conforme a quanto sta scritto in Isaia profeta".
Avventurosa la vita di questo santo, compagno degli Apostoli, figlio di una Maria vedova, proprietario di una casa a Gerusalemme ove si rifugia Pietro uscito miracolosamente di prigione. Iniziato alla vita apostolica dal cugino Barnaba, Pietro lo considera come un figlio, mentre i rapporti con Paolo sono più difficili (e come dargli torto...).
Antiochia, Cipro, Roma sono alcune delle tappe dei viaggi di Marco, il quale avrebbe poi predicato in Alessandria d'Egitto dove sarebbe stato martirizzato al tempo di Traiano, col fuoco o forse trascinato per le vie con una fune legata al collo.
Intorno all'anno 828, Buono (tribuno di Malamocco e Rustico da Torcello (mercante) sbarcano, con altri compagni, in Egitto e trafugano il corpo di San Marco, già allora venerato dai cristiani in Oriente, sostituendolo nell'urna con quello della Beata Claudia. Per sfuggire ai controlli, la reliquia viene nascosta tra carni di maiale, considerata immonda dai Saraceni.
L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 829, San Marco viene accolto trionfalmente dal Doge e dai veneziani, e diviene il simbolo della nascente Repubblica, sostituendo San Teodoro di origine greca, anche in un empito di autonomia nei confronti dell'Impero d'Oriente.
Comincia subito la costruzione della basilica ad in essa viene posto il corpo di San Marco, forse nella cripta; poi ritrovato nel 1094 in un'urna dentro ad un pilastro. Davanti a questo pilastro è accesa una lampada perenne a ricordo dell'avvenimento. La scoperta del 1811, in epoca napoleonica, e la ricognizione del 1835, durante il dominio austriaco, completano la storia della reliquia che adesso è deposta sotto l'altare maggiore della basilica.
La leggenda narra che Marco, prima di recarsi ad Alessandria, sarebbe stato ad Aquileia (di cui alcuni lo vogliono vescovo). Partendo da questa località, si ferma nella laguna veneta per riposarsi (proprio dove oggi sorge la chiesa di San Francesco della Vigna, alle cui spalle ancora c'è una piccola cappella a ricordo dell'avvenimento, oggi trasformata in magazzino...). Durante la notte ivi trascorsa, gli appare un angelo che gli predice che in quelle isole vi sarebbero stati abitanti straordinari, a lui devoti, e che le sue ossa qui avrebbero trovato riposo, e lo saluta a nome di Cristo, con la celebre frase: "Pax tibi Marce evangelista meus". Sono appunto le parole che appaiono sul libro aperto del leone alato. L'esistenza della parola "pax" porta a chiudere il libro in caso di guerra.
San Marco è dagli storici spesso identificato nel Vangelo, al momento dell'arresto di Gesù, nel ragazzo che stava seguendolo "avvolto solo di un panno di lino. Tentarono di afferrarlo, ma lui, lasciato cadere il panno, se ne fuggi via nudo".






lunedì 27 ottobre 2014

La Festa della Sensa, meraviglia e orgoglio di Venezia

E venne la Festa della Sensa.
Occasione buona, nelle campagne venete, per fare un po' di baldoria alla buona e ficcare le gambe sotto una tavolata con rustici mangiari: il cotechino e la lingua di maiale per esempio; un piatto saporito da rifar la bocca anche dei siori.
La Sensa a Venezia, però, era tutt'altra cosa: il festival dell'universo, la fine del mondo.
Perché combinava la festa religiosa con quella civile, ricordando il giorno che Pietro Orseolo II s'era mosso con la flotta della città per la conquista della Dalmazia: il primo passo della potenza veneta sul dominio dei mari.

Per la Sensa dunque, sette giorni prima e sette giorni dopo, a Venezia:
"... l'oro e l'argento va per le scoazze.
Che galìe, che sciambecchi, che galiazze
drio la pubblica regia Maestà,
che peote in livrea, che infinità
de barcolame de tutte le razze!
Che popolo, che gran foresteria,
che Canal, che tragheti!
Oh Dio, che done!
"

E in Piazza e in Piazzetta si faceva la Fiera. Con l'esposizione in baracche di legno d'uno sterminio di mercanzia finissima, tirata fuori dal buio dei fondachi e delle botteghe. E c'erano ferri battuti, lacche, piatti di rame, ottoni, peltri, statue, fanò da galea, mosaici, filigrane d'oro e d'argento, pietre colorate, vetri di Muran, specchi, conterie, merletti buranei, piume, broccati, damaschi, velluti, drappi di seta, lampassi, libri, incisioni, miniature, burattini, maschere, giocattoli, medicinali, mobili, bestie feroci, rarità naturali, mostruosità umane.
E poi un baccanale di ambulanti, mercanti, compratori, popolani, ciarlatani, giocolieri, domatori, avventurieri, belle donne, turisti piovuti d'ogni dove. E ciacolessi a non finire.
E il Liston, su e giù per la Piazza, delle donne in zendà e dei nobili in tabarro.
E lo svolo dell'angelo: un ragazzo issato a forza di carrucole e di corde fin in cima al Campanile, donde si esibiva in salti e capriole inverosimili perfino sulla testa dell'angiolone d'oro che svetta lassù, per poi volare giù lungo la fune, con un mazzetto di fiori, sulla loggia del Palazzo Ducale.
E ancora tanti altri strambessi, una tal confusione, una calca, un'ammucchiata, tra Piazza San Marco e la Riva degli Schiavoni, dietro le colonne, negli angoli, di uomini e donne d'ogni età e d'ogni condizione sociale, che profittavano del buio per fare quello che in altri giorni non si permettevano di fare.
E le gnaghe, e il baccano, e la baraonda che andava alle stelle.









Ma il cuore della Sensa (lo si sapeva fino a Costantinopoli), era lo Sposalizio del Mare, lo spettacolo più gigantesco, più cinematografico di tutti i tempi.
Quando il Doge, preceduto dagli stendardi e dalle trombe d'argento, tutto ammantato d'oro dalla testa ai piedi, col bavero d'ermellino, la sottana azzurra e le calze rosse, con gli scudieri col cuscino e l'ombrello di damasco, un nobile che gli portava lo stocco, seguito dal Cancellier grando, il Nunzio apostolico, i Capi della Quarantia, i Consiglieri, i Procuratori, i Savi e gli Almiranti, saliva sul Bucintoro, "la più bella barca del mondo", la sua sfarzosissima nave da parata.
Ai 42 remi stavano 168 arsenalotti, scegli tra lo sterminato esercito di operai che lavoravano nel cantiere della Serenissima, l'Arsenale, che tanto impressionò Dante Alighieri.
Poi tra gli evviva del popolo, si mollavano gli ormeggi e la regale nave, tutta rosso e oro, parata di velluti traforati e sculture, stendardi e addobbi, col Doge seduto sul ponte superiore assieme ai 50 comandadori, ai canonici di San Marco, al maestro delle cerimonie, ai segretari del Senato, ai 100 capimastri dell'Arsenale, si moveva solenne e prendeva il largo nel palcoscenico "più strepitoso del mondo", il Bacino di San Marco.
Seguita e fiancheggiata dai peatoni, dalle galìe, dalle galeazze, dalle fuste, dai bragozzi, dalle gondole dorate degli ambasciatori. Mentre tutte le campane della città suonavano a festa e tuonavano le artiglierie delle navi, e dalle rive la folla si commuoveva fino alla lacrime, perché era la Serenissima Repubblica del Leone che andava a sposare il mare.

(fonte: A. Scandellari)

sabato 11 ottobre 2014

Stabilimenti balneari galleggianti nella Venezia dell'Ottocento

Nel 1833 il dott. Tomaso Rima inaugurava a Venezia i Bagni Galleggianti RIMA.
Si trattava di uno Stabilimento "mobile" attraccato nei pressi della Chiesa della Salute, dotato di attrezzature per “bagni caldi e freddi, dolci e salsi, semplici e medicati, a vapore e docciature”.
Lungo 123 metri e largo 17, contava una cinquantina di camerini a spogliatoio. Fu ampliato nel 1835 e dotato di “Sirene”, gondole da bagno con sotto la chiglia una gabbia di metallo per l'immersione  delle signore.

Ecco come il tenente Remigio seduce la contessa veneziana Livia, in Senso di Camillo Boito:

"Ora ecco in qual modo principiò la mia terribile passione per l'Alcide, per l'Adone in assisa bianca, il quale si chiamava con un nome che non m'andava a' versi - Remigio.
Costumavo tutte le mattine di recarmi al bagno galleggiante di Rima, posto fra il giardinetto del Palazzo Reale e la punta della Dogana. Avevo preso per un'ora, dalle sette alle otto, una Sirena, cioè una delle due vasche per donne, grande quanto bastava per nuotarvi qualche poco ...
La vasca, chiusa intorno da pareti di legno e coperta da una tenda cenerognola a larghe zone rosse, aveva il fondo di assi accomodato a tale profondità sott'acqua che alle signore di piccola statura rimanesse fuori la testa. A me restavano fuori le spalle intiere.
... Nuotavo quant'era lunga la Sirena; battevo l'acqua con le mani aperte,
... Molte larghe aperture, appena sotto il livello dell'acqua, lasciavano entrare e passare l'acqua liberamente, e le pareti, mal commesse, permettevano, attraverso le fessure, di vedere, applicandovi l'occhio, qualche cosa al di fuori - il campanile rosso di San Giorgio, una linea di laguna, dove fuggivano leste le barche, una fetta sottile del Bagno militare, che galleggiava a piccola distanza della mia Sirena.
Sapevo che tutte le mattine, alle sette, il tenente Remigio vi andava a nuotare. In acqua era un eroe: saltava dall'alto a capo fitto, ripescava una bottiglia sul fondo, usciva dal recinto attraversando di sotto lo spazio dei camerini. Avrei dato non so che cosa per poterlo vedere, tanto m'attraevano l'agilità e la forza.
Una mattina, mentre guardavo sulla mia coscia destra una macchietta livida, forse una contusione leggiera, che deturpava un poco la bianchezza rosea della pelle, udii fuori un romore come di persona, la quale nuotasse rapidamente. L'acqua si agitò, la ondulazione fresca mi fece correre un brivido per le membra, e da uno dei larghi fori tra il suolo e le pareti entrò improvviso nella Sirena un uomo. Non gridai, non ebbi paura. Mi parve fatto di marmo, tanto era candido e bello; ma il suo ampio torace si agitava per il respiro profondo, e i suoi occhi celesti brillavano, e dai capelli biondi cadevano le gocciole come pioggia di lucenti perle. Ritto in piedi, mezzo velato dall'acqua ancora tremolante, alzò le braccia muscolose e morbide: pareva che ringraziasse i numi e dicesse: - Finalmente!
Così principiò la nostra relazione".



giovedì 4 settembre 2014

Breve storia della cucina veneziana

Costruita su scampoli di terre, isolata dalle acque della laguna, senza poter coltivare grano e frumento, né "cosa alcuna al viver degli uomini", Venezia ha malgrado tutto detenuto per secoli una posizione primaria nell'arte della gastronomia.
Facendo di necessità virtù, i veneziani diventano presto abili mercanti, per procurarsi quei beni primari che in Laguna non c'erano, ma quella che inizialmente doveva essere una semplice fonte di sussistenza si trasforma presto in una fonte di guadagno, in quanto si comincia ad importare da mercati lontani non solo grano e frumento ma anche spezie, zucchero ed altre merci culinarie sconosciute in Europa.
In anticipo di diversi secoli Venezia intuisce presto la potenzialità di queste merci e inventa letteralmente il marketing, capendo che per poter vendere bene un prodotto bisogna creare la domanda e non aspettare che questa si formi da sola. Ecco quindi che Venezia stessa "inventa" il lusso delle spezie. Ma non solo, sempre in forte anticipo sui tempi, inventa anche il packaging, immettendo sul mercato i famosi "sacchetti veneziani", cioè spezie miste già confezionate e pronte all'uso!
Erede diretta della tradizione bizantina e romana, la gastronomia lagunare è tra le prime a confrontarsi con le altre cucine del mondo: da quella musulmana a quella austroungarica, passando per quella spagnola e francese. Sono incontri che nascono dalla convivenza con le popolazioni islamiche sui mercati di Levante e dal confronto con le minoranze straniere presenti in città fin dai tempi più antichi.
Tra il Quattro e il Cinquecento nuovi e significativi prodotti vanno ad aggiungersi a questa ricchezza di base: dalle gelide acque dei mari del Nord arriva il baccalà, alias stoccafisso, un'autentica rivoluzione culinaria, in un'epoca in cui non esiste il frigorifero.
In una situazione già di per se privilegiata, il Rinascimento investe Venezia con tutta la sua energia innovatrice, e come poteva essere diversamente in una città che sa usare tutte le armi della seduzione, compresa quella del cibo, raffinato e lussuoso, lanciando messaggi di potenza politica a regali ospiti stranieri tramortendoli con fiumi di spezie, zucchero e foglie d'oro su ostriche?
Ma la vera grandezza di Venezia è stata quella di saper uscire dalle cucine e di arrivare alle biblioteche, che poi significa uscire dalle dimensioni dell'effimero per restare nei secoli. Caso unico in tutta la penisola, qui si sviluppa una grande editoria gastronomica con la pubblicazione di ricettari, traduzioni di libri di dietetica dall'arabo e dal greco, trattati di agricoltura e resoconti di viaggio che informano sulla scoperta di nuovi prodotti.
La fine del Cinquecento chiude l'epoca delle pietanze sotterrate da una montagna di spezie, e il vento di nuovi gusti moderni portati dai francesi giunge anche a Venezia. Il consumo del lusso prende altre strade, e per i mercanti veneziani non ha più senso riempire le stive delle navi di quelle spezie che hanno fatto la loro fortuna. Ma i patrizi non si perdono certo d'animo e si riciclano imboccando la via della terraferma, con le grandi bonifiche, gli investimenti agricoli, e la coltura di quelle primizie che rivoluzionano il territorio veneto nella forma che ancora oggi vediamo.
Tra osterie e finger food, tra cioccolate illuministiche e chef francesi si arriva al Settecento. Si spegne la Repubblica ma non la gastronomia, che si fa tentare dai gusti mitteleuropei importati dagli austriaci. Si stampano i primi ricettari borghesi ottocenteschi e la cucina si internazionalizza.
Nel Novecento, legata con un ponte di cemento e di ferro alla terraferma, Venezia perde la sua insularità. Il turista rimpiazza il viaggiatore, i bacari si trasformano in bar tutti uguali, il cicchetto troppo spesso lascia il posto a pizze e panini surgelati.
L'invasione del gusto globalizzato non cancella comunque la buona cucina veneziana, che rimane arroccata in pochi locali e nella dimensione intima della casa.

(fonte: C. Coco)

giovedì 15 maggio 2014

Marco Polo e il Milione

A Genova, nell'autunno del 1298, dopo la battaglia di Curzola, il "nobile cuore dei genovesi ha la gentile saggezza di fare a Marco Polo, tra gli altri cinquemila prigionieri in attesa di riscatto, onorevole cortesia" (Anonimo Genovese).
La prigionia di Marco Polo a Genova è una prigionia dorata, analoga a quella di Re Enzo a Bologna (molto diversa da quella del conte Ugolino a Pisa o da quella di Iacopone da Todi...).
In prigione Marco Polo si ritrova come compagno di cella Rustichello da Pisa, che era lì dal 1284.
Rustichello da Pisa è uno scrittore abbastanza noto, specializzato in rifacimenti di romanzi della Tavola Rotonda. Rustichello non scrive in questo o quel neo-latino d'Italia, né in latino, bensì in "francese di Lombardia" (derivato dalla lingua d'oil).
Nella dorata prigionia di Genova, il veneziano Marco Polo parla e parla col pisano Rustichello, e può darsi che parlino proprio in "francese di Lombardia" (forse Marco parla in "franco-veneto"... è sempre affascinante immaginare in quali lingue comunicassero le persone nei secoli passati).
Verosimilmente Marco Polo è un bravo narratore, a voce. Raccontare le cose oralmente a volte, a certe persone, vien meglio che per iscritto. Per esempio Giovanni da Pian del Carpine raccontava meglio i suoi viaggi a voce che per iscritto. Ma Giovanni da Pian del Carpine era anche uno che provava a scriverli (senza troppo successo) i suoi racconti (in latino); forse qualche impaccio della sua inettitudine di scrittore si riverberava nel parlare. Marco Polo non aveva nemmeno questo impaccio, probabilmente Marco Polo non aveva mai preso la penna in mano, se non per i suoi conti da mercante.
Così, per nostra grandissima fortuna, Marco Polo parla liberamente, a braccio, e Rustichello da Pisa, ascolta, socchiudendo gli occhi. Che storie straordinarie! Come assomigliano ai romanzi della Tavola Rotonda che Rustichello da Pisa ha nelle orecchie!
Poi Rustichello inizierà a scrivere quel che Marco Polo gli racconta.
Che un libro possa nascere così lo vediamo tutti i giorni. Un uomo politico, un capitano d'industria, un campione sportivo o un'attrice, firmano un libro di memorie che è stato scritto per loro incarico da un romanziere o da un giornalista. A volte in copertina figurano i due nomi, a volte ne figura solo uno: il nome di chi non ha scritto il libro...
Fiumi di inchiostro son corsi ponendosi il problema della vera paternità del libro che nasce a Genova sotto la penna di Rustichello da Pisa, seguendo (come?) le labbra di Marco Polo. Una cosa è certa, il libro ha molto l'aria di esser stato scritto da un rifacitore professionista di romanzi della Tavola Rotonda.
Il libro ha subito un'immensa fortuna, proprio perché si fa leggere come un libro di intrattenimento. Uno dei titoli che ha nei codici rimastici è Le divisament dou monde (in "francese di Lombardia" significa: "La descrizione del mondo"). Viene poi riscritto in francese e assume il titolo di Livre des merveilles ("Libro delle meraviglie"). Ha immediatamente una traduzione in latino: De mirabilibus mundi ("Le meraviglie del mondo"). In traduzione latina leggerà questo libro, scritto a Genova, il (forse) genovese Cristoforo Colombo, e ci si scalderà la fantasia, e ci farà delle note (il codice postillato da Cristoforo Colombo si conserva nella Biblioteca di Siviglia). Seguiranno traduzioni in neo-latino veneziano e in neo-latino fiorentino. Titolo: Libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione. Il soprannome "milione" sembra derivare dal fatto che la gente non creda minimamente ai suoi racconti, e ritiene che siano un milione di frottole. Ma tutti ritengono che il libro sia davvero molto bello da leggere.
Il Milione vive quindi molte vite e avrà innumerevoli traduzioni. In molti manoscritti viene trascritto insieme ai romanzi della Tavola Rotonda o ai romanzi del "ciclo classico" (tratti da Omero e Virgilio). Non è forse un caso se Matteo Maria Boiardo, scrivendo l'Orlando Innamorato, fa provenire la bellissima Angelica proprio dal Catai...
Resta da dire che Il Milione, per chi ha gusti letterari, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Oscar Wilde lo metteva nel numero ristrettissimo dei libri che val la pena di leggere, anzi, nel numero ancor più ristretto dei libri che val la pena di rileggere.
Vi consigliamo pertanto di leggere e rileggere il Milione, e non abbiamo altro da dire.

(fonte: G. Dossena)