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lunedì 27 ottobre 2014

La Festa della Sensa, meraviglia e orgoglio di Venezia

E venne la Festa della Sensa.
Occasione buona, nelle campagne venete, per fare un po' di baldoria alla buona e ficcare le gambe sotto una tavolata con rustici mangiari: il cotechino e la lingua di maiale per esempio; un piatto saporito da rifar la bocca anche dei siori.
La Sensa a Venezia, però, era tutt'altra cosa: il festival dell'universo, la fine del mondo.
Perché combinava la festa religiosa con quella civile, ricordando il giorno che Pietro Orseolo II s'era mosso con la flotta della città per la conquista della Dalmazia: il primo passo della potenza veneta sul dominio dei mari.

Per la Sensa dunque, sette giorni prima e sette giorni dopo, a Venezia:
"... l'oro e l'argento va per le scoazze.
Che galìe, che sciambecchi, che galiazze
drio la pubblica regia Maestà,
che peote in livrea, che infinità
de barcolame de tutte le razze!
Che popolo, che gran foresteria,
che Canal, che tragheti!
Oh Dio, che done!
"

E in Piazza e in Piazzetta si faceva la Fiera. Con l'esposizione in baracche di legno d'uno sterminio di mercanzia finissima, tirata fuori dal buio dei fondachi e delle botteghe. E c'erano ferri battuti, lacche, piatti di rame, ottoni, peltri, statue, fanò da galea, mosaici, filigrane d'oro e d'argento, pietre colorate, vetri di Muran, specchi, conterie, merletti buranei, piume, broccati, damaschi, velluti, drappi di seta, lampassi, libri, incisioni, miniature, burattini, maschere, giocattoli, medicinali, mobili, bestie feroci, rarità naturali, mostruosità umane.
E poi un baccanale di ambulanti, mercanti, compratori, popolani, ciarlatani, giocolieri, domatori, avventurieri, belle donne, turisti piovuti d'ogni dove. E ciacolessi a non finire.
E il Liston, su e giù per la Piazza, delle donne in zendà e dei nobili in tabarro.
E lo svolo dell'angelo: un ragazzo issato a forza di carrucole e di corde fin in cima al Campanile, donde si esibiva in salti e capriole inverosimili perfino sulla testa dell'angiolone d'oro che svetta lassù, per poi volare giù lungo la fune, con un mazzetto di fiori, sulla loggia del Palazzo Ducale.
E ancora tanti altri strambessi, una tal confusione, una calca, un'ammucchiata, tra Piazza San Marco e la Riva degli Schiavoni, dietro le colonne, negli angoli, di uomini e donne d'ogni età e d'ogni condizione sociale, che profittavano del buio per fare quello che in altri giorni non si permettevano di fare.
E le gnaghe, e il baccano, e la baraonda che andava alle stelle.









Ma il cuore della Sensa (lo si sapeva fino a Costantinopoli), era lo Sposalizio del Mare, lo spettacolo più gigantesco, più cinematografico di tutti i tempi.
Quando il Doge, preceduto dagli stendardi e dalle trombe d'argento, tutto ammantato d'oro dalla testa ai piedi, col bavero d'ermellino, la sottana azzurra e le calze rosse, con gli scudieri col cuscino e l'ombrello di damasco, un nobile che gli portava lo stocco, seguito dal Cancellier grando, il Nunzio apostolico, i Capi della Quarantia, i Consiglieri, i Procuratori, i Savi e gli Almiranti, saliva sul Bucintoro, "la più bella barca del mondo", la sua sfarzosissima nave da parata.
Ai 42 remi stavano 168 arsenalotti, scegli tra lo sterminato esercito di operai che lavoravano nel cantiere della Serenissima, l'Arsenale, che tanto impressionò Dante Alighieri.
Poi tra gli evviva del popolo, si mollavano gli ormeggi e la regale nave, tutta rosso e oro, parata di velluti traforati e sculture, stendardi e addobbi, col Doge seduto sul ponte superiore assieme ai 50 comandadori, ai canonici di San Marco, al maestro delle cerimonie, ai segretari del Senato, ai 100 capimastri dell'Arsenale, si moveva solenne e prendeva il largo nel palcoscenico "più strepitoso del mondo", il Bacino di San Marco.
Seguita e fiancheggiata dai peatoni, dalle galìe, dalle galeazze, dalle fuste, dai bragozzi, dalle gondole dorate degli ambasciatori. Mentre tutte le campane della città suonavano a festa e tuonavano le artiglierie delle navi, e dalle rive la folla si commuoveva fino alla lacrime, perché era la Serenissima Repubblica del Leone che andava a sposare il mare.

(fonte: A. Scandellari)

giovedì 4 ottobre 2012

La caccia dei tori

D'origine antichissima ed incerta, si rinnovò per secoli ad ogni Carnevale, non solo nei campi più spaziosi ma anche, in occasioni straordinarie, in Piazza San Marco.
Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
 

lunedì 23 gennaio 2012

Pietro Orseolo II, Pericle di Venezia

Gli anni prima dell’anno Mille, erano anni difficili in Europa: anarchia feudale, guerre tra Impero e Papato, carestie e incertezza e in più nacque la psicosi del 1000 non più 1000. Ed è proprio in questo momento della storia che a Venezia visse il Doge Pietro Orseolo II, forse il più grande Doge della Repubblica, soprannominato il Pericle Veneziano. Era uomo ambizioso, ma soprattutto fu uomo del suo tempo, aveva capito quanto più forte fosse la parola rispetto alle armi, quando più valida fosse una politica basata sulle relazioni diplomatiche piuttosto che sulla guerra, e quanta importanza avesse per Venezia il dominio e la difesa dell’Adriatico. Direttive politiche che dopo di lui saranno poi quasi sempre seguite dai governi che si succederanno alla guida della Repubblica. Per nulla intimorito dalle profezie sull’anno Mille iniziò nel 991 a soli trent’anni il suo dogato e la sua saggia politica. Strinse accordi con l’Impero di Bisanzio ottenendo la Bolla d’oro che concedeva alti privilegi ai mercanti veneziani nei loro commerci con l’oriente. Strinse accordi anche con Ottone III  Imperatore d’Occidente e intrattenne buone relazioni con gli stati limitrofi italiani, stipulando con ognuno particolari trattati. Dimostrò poi di essere “uomo moderno” quando, superando le idee e gli scrupoli del suo secolo, concluse trattati persino con i saraceni. Assicurata la pace ed i commerci, Pietro Orseolo II emanò un provvedimento davvero in anticipo sui tempi: proibì di partecipare armati alle riunioni in Palazzo Ducale! Il Doge voleva dare più valore al procedimento legale che alla forza bruta, in tempi in cui praticamente tutti portavano armi. L’unico punto irrisolto della sua abile politica erano i pirati Narentani (slavi), ai quali Venezia, per evitare d’esser sempre con le armi in pugno e per assicurare i proprio commerci, pagava un tributo annuo. Orseolo decise di sospendere il tributo, scatenando l’ira dei Narentani, i veneziani allora misero a ferro e fuoco le spiagge dei pirati facendo numerosi prigionieri, la risposta dei Narentani fu immediata, scatenarono la loro rabbia sulle città dalmate, le quali erano provincia bizantina. Bisanzio però lasciava che le provincie più lontane si governassero da sole, e così nel momento del pericolo la Dalmazia si rivolse a Venezia per chiedere aiuto. E nel fatidico anno Mille, quando nel mondo doveva accadere l’irreparabile, Pietro Orseolo II iniziò la sua più famosa impresa: la liberazione delle città dalmate. Il 9 maggio, giorno dell’Ascensione, partì con tutta la flotta armata e in un solo mese liberò tutte le città dalmate, sconfisse i pirati e si spinse fino a Lagosta, sigillando così il dominio di Venezia sull’Adriatico. Tornato in patria l’Orseolo stabilì che da quell’anno in poi, nel giorno dell’Ascensione, il doge tornasse al Porto del Lido accompagnato del Vescovo di Castello e usciti in mare aperto  benedicessero le acque perché fossero loro propizie…

lunedì 2 maggio 2011

Banchetti di Stato della Repubblica Serenissima

Nel Rinascimento la questione della tavola è centrale sotto il profilo politico, essa infatti travalica il semplice atto del mangiare e diventa una manifestazione di prestigio, inscenata per impressionare l'ospite, per far comprendere la vastità delle sue ricchezze, per aumentare il potere di chi organizza il convivio. Il banchetto quindi è scenografia, coreografia, finzione, spettacolo. E' arte raffinata che unisce intrattenimento, cibi ricercati, preparazione della tavola, per appagare allo stesso tempo occhio, palato e mente.
In particolare nelle festività pubbliche, Venezia costruisce un cerimoniale specifico studiato nei minimi dettagli. I banchetti tradizionali offerti dal doge nell'arco dell'anno sono cinque. Innanzitutto, San Marco, festeggiato il 25 aprile con un menù rituale costituito da una tenera primizia che il principe ha il privilegio di assaggiare per primo: si tratta dei piselli, presentati sotto forma di risi e bisi (riso con piselli) o di bisi con persuto (piselli con prosciutto). Quaranta giorni dopo Pasqua cade la Sensa (Ascensione), che si apriva con un antipasto di zuche confete (zucca caramellata) accompagnate da malvasia muschatella (vino greco dolce).
Queste due festività vengono onorate ancora oggi a Venezia, e da qualche anno sono tornati in auge i risi e bisi preparati alla vecchia maniera. Si è completamente persa traccia invece delle altre tre ricorrenze: Santi Vito e Modesto, il 15 giugno, di cui rimane il ricordo di un "pranzo bellissimo di pessi" offerto dal doge Andrea Gritti nel 1532; San Girolamo, il 30 settembre, nel corso della quale venivano conferiti ai patrizi alcuni importanti uffici della Repubblica; mentre sul quinto banchetto c'è incertezza: Giustina Michiel Renier nel suo libro "Origini delle feste veneziane" parla di Santo Stefano, Giuseppe Tassini di San Lorenzo.
Oltre a questi banchetti sono da ricordare i ricevimenti speciali in occasione di visite di sovrani e di ambasciatori, presso il Palazzo Ducale. Il tavolo preparato per queste occasioni è di forma ovale e gli invitati appartengono ai vari rami del governo e del corpo diplomatico, ma proprio per dimostrare che ci troviamo in una repubblica, il popolo non viene privato del diritto di assistere come spettatore a queste mense. I cittadini però si ritirano dopo il primo servizio: un usciere scuote le chiavi e quello è il tacito segnale della partenza, mentre al loro posto subentrano i musici. Terminato il banchetto, gli scudieri di palazzo presentano ad ogni convitato un paniere di dolci, mentre il doge si alza, si commiata e si ritira negli appartamenti privati.
Una curiosità: all'epoca era abitudine servirsi di posate personali, portate da casa, per praticità o per paura di essere avvelenati. A tavola, ambasciatori e personalità sono serviti dal proprio domestico, incaricato di riportare a casa la cassetta contenente posate e bicchiere facenti parte del coperto. Il nome deriva dal tovagliolo messo su tutto, e spiega l'origine della voce che ancora oggi troviamo nel conto del ristorante.

(fonte: C.Coco)

lunedì 18 aprile 2011

Le origini del turismo a Venezia

La vocazione turistica di Venezia ha origini lontane. Già nel 1179 la Serenissima ottiene da Alessandro III la remissione dei peccati per chi si reca in pellegrinaggio alla Basilica di San Marco. Molto prima quindi del 1300, quando Bonifacio VIII istituì il primo Giubileo e proclamò l'indulgenza plenaria per i pellegrini a San Pietro in Roma.
Ma ancor prima, nell'anno 997, Pietro Orseolo II decretava la Festa della Sensa, in memoria della conquista della Dalmazia, in occasione della quale veniva allestita una grande fiera in Piazza San Marco con l'esposizione dei prodotti artigianali locali; fiera destinata a diventare celebre in tutta Europa.
Al connubio dell'indulgenza con la ricca fiera dei prodotti veneziani, va aggiunto naturalmente il richiamo del particolare fascino della città stessa, così diversa da qualunque altra città del mondo conosciuto.
Con le crociate sorgono, parallelamente al servizio di trasporto dei Cavalieri e dei pellegrini sulle navi veneziane, tutta una serie di servizi ad esse connesse. In Riva degli Schiavoni operavano i "Tholomarii", sorta di tour operator ante litteram, che assistevano i viaggiatori per trovar loro alloggio, imbarco e la fornitura dei beni necessari per la traversata in mare.
Al fine di regolamentare la materia e prevenire l'abusivismo (!) e gli imbrogli, il Maggior Consiglio nel 1255 affrontò la questione con il "Capitulum Peregrinorum" che definiva chi e come poteva operare in questo campo. Per farsi un'idea del volume d'affari che comportava questo antenato del turismo, basti pensare che i soggiorni di questi viaggiatori in città si prolungavano mediamente per un mese, e nel solo anno 1384 si effettuarono circa 600 trasporti per la Terra Santa; il prezzo variava dai 24 ai 32 ducati per la sistemazione sul ponte della nave, e dai 40 ai 50 ducati per viaggiare al coperto nella stiva.

(fonti: Fuga & Vianello)

giovedì 11 novembre 2010

San Martino

Nel 751 Ravenna viene occupata dai Longobardi, e molti ravennati in fuga trovano rifugio nella laguna di Venezia. Già nel 936 compaiono le prime notizie di una chiesa dedicata a San Martino (ricordiamo che la cattedrale di Ravenna era dedicata appunto a San Martino) nell'area che verrà poi utilizzata per la realizzazione dell'Arsenale.
La chiesa di impianto veneto-bizantino venne poi completamente riedificata nel Cinquecento ad opera del Sansovino. In quella occasione venne realizzato anche l'edificio a fianco, come sede della Scuola devozionale di S. Martino, che custodiva un pezzo di tunica, un dito ed un osso della gamba di S.Martino. La reliquia della tibia fu ceduta alla Scuola di San Giovanni Evangelista in cambio di una somma utile al restauro della Chiesa, obbligando però i confratelli a portare la preziosa reliquia in solenne processione l’11 novembre di ogni anno, la tradizione avrà fine solo con la caduta della Repubblica.
Sulla facciata si trova una Bocca di Leone per le denunce segrete (che però per poter esser prese in considerazione non potevano essere anonime). Sulla sommità della facciata abbiamo due statue: San Martino Vescovo (300 dc) e San Martino Papa (600 dc), il primo si festeggia l’11 novembre il secondo il giorno seguente. L'11 di novembre era anche il giorno per il rinnovo dei contratti d'affitto: “far samartin” significava infatti "traslocare". Ma soprattutto l’11 novembre è la festa dei bambini che girano per le calli cantando la filastrocca di San Martino e rumoreggiando con tamburi improvvisati, in cambio ricevono monetine o dolci di pastafrolla a forma di cavaliere che ricordano quello del bassorilievo sopra la Scuola di San Martino.


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lunedì 14 giugno 2010

Festa di Sant'Antonio a Venezia

Giunta alla dodicesima edizione, la festa di S.Antonio a Venezia è ricordata per la suggestiva processione del Santo che si snoda per le vie della parrocchia di San Francesco della Vigna.
Il programma (dal 12 al 19 giugno) è nutrito di eventi: spettacoli, concerti, balli e tornei sportivi. Da non dimenticare lo stand gastronomico che sforna dal pesce fritto alla garne alla griglia, da succulenti primi a deliziosi dessert.
L'occasione è da annoverare tra le feste a quasi esclusiva partecipazione veneziana, giacché ben pochi turisti arrivano fin qua...
In particolare sabato sera il chiostro di San Francesco della Vigna ha ospitato un importante spettacolo di teatro di ricerca, realizzato dalla Compagnia Teatrocontinuo.

Se ancora qualcuno crede che Venezia sia una città morta dovrebbe venire a vedere quanti Veneziani partecipano a questa come ad altre feste cittadine!

Personalmente ho avuto la fortuna di assitere al bellissimo spettacolo teatrale di sabato sera, ed ho realizzato un piccolo servizio fotografico.

Riporto qui la presentazione dello spettacolo in questione:
Giganti sono coloro che cercano senza alternative, accettando la sfida della destabilizzazione che provoca l'incontro con lo sconosciuto, la trasformazione, il cambiamento; giganti sono acrobati sospesi sulla corda, il bilanciere tra le mani sudate, che passano all'altra parte con spirito leggero.
Lo spettacolo Giganti si configura come un viaggio, rilettura del passato e del presente, prendendo come pretesto la città di Venezia, immenso patrimonio di storia, cultura e umanità.
Venezia diventa nella finzione teatrale come un anziana Signora con problemi di salute e un eredità cospicua che alcuni vorrebbero dilapidare e altri si propongono di conservare: una sfida, quest'ultima, che solo dei Giganti riusciranno ad affrontare, gli stessi che al momento della sua fondazione hanno immaginato e costruito questa straordinaria città anfibia, Utopia dell'umanità.
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