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giovedì 14 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 04

 


Nelle puntate precedenti abbiamo raccontato del libertinaggio a Venezia nei suoi secoli d'oro.
Giungiamo ora dunque al Settecento, l'ultimo secolo di vita della Serenissima.

Se innegabilmente i Veneziani nei secoli precedenti si abbandonavano ben spesso al vizio, altrettanto spesso però operarono cose egregie ed onorevoli per sé o per la patria.
Mentre nel Settecento regnava ahimè l'assoluta mollezza e lascivia senza le virtù degli antenati.

Il marcio partiva già nell'educazione affidata ad abati ignoranti o a monache scandalose.
Non stupisce quindi l'altissimo numero di richieste di separazione che nel solo ultimo decennio del Settecento ammontarono a quasi trecento.
Né stupisce conoscere di numerosi casi di mariti che pur di non scontentare la moglie si prodigavano in prima persona a riappacificare il cavalier servente colla propria moglie in seguito ad un qualche litigio ...

Ma chi era il "cavalier servente"?

Ce lo spiega il de Brosses:

"E' di regola che le dame veneziane posseggano un amante, e sarebbe una specie di disonore per una dama non tenere un uomo per proprio conto. Le famiglie approvano e si lascia che la sposa faccia la sua scelta, dando l'esclusione a questo o a quello. Queste attuali pratiche delle dame han diminuito di molto i fasti delle monache che in passato avevano il monopolio della galanteria. Con tutto ciò, anche oggidì, un buon numero di esse si dedica agli impegni con onore, poiché al momento in cui scrivo, havvi una furiosa briga fra tre conventi della città per sapere quale fra essi avrà il privilegio di procurare una “amica” al nuovo Nunzio Apostolico che sta per arrivare".

Giova osservare che talvolta gli sfacciati mezzani facevano passare per monache agli occhi degli incauti stranieri, donne che non lo erano affatto; nella stessa guisa in cui offrivano qualche prostituta sotto il titolo di moglie del tal nobile.
Ma peraltro erano talvolta davvero mogli di patrizi se come si narra, un dì, un certo patrizio si sentì proporre la propria consorte!


Anche le leggi si fan più permissive e capita d'incontrar cortigiane ovunque in città comprese le chiese, a qualsiasi ora.

Un cronista accenna ad un nuovo costume adottato dalle gentildonne, le quali uscivano al passeggio calzando semplici pianelle e coperte soltanto di un sottanino.
Lo stesso cronista narra altresì della sfrenatezza con cui le gentildonne si abbandonano al gioco d'azzardo, che le riducevano al punto di dover pagare col proprio corpo.

I luoghi preposti al gioco venivano chiamati casin (nel senso di piccola casa) o ridotti (dal latino "redursi"=recarsi). Ma alcuni di questi casin servivano anche ad altro scopo, forniti com'erano di eleganti letti, di ricchi specchi, di quadri lascivi, di vasche da bagno e di tavoli sopra i quali stavano pagine scandalose, quali le poesie del poeta Giorgio Baffo.


Nel Settecento, alle monache e alle cortigiane, s'aggiungono le cantanti e le ballerine di teatro.
Gli ambasciatori e i rappresentati di corti estere facevano a gara per accaparrarsi le più aggraziate tra le deità della scena, valendosi nell'opera di fidati mezzani, i quali molto spesso erano gondolieri.


Talvolta la tariffa per la conquista era fissa come c'insegna un cronista parlando della Pelosina (e non voglio sapere perché la chiamassero così ..), che si faceva applaudire al teatro San Beneto; sua madre, scrive il cronista: “desidererebbe farla uscire dalla virginità al suono di 300 zecchini” (ti ci compravi una casa con 300 zecchini ...).

Ma ci sono anche casi contrari, come l'interessante storia di Stella Cellini.

Stella Cellini era una giovane attrice ballerina che si esibiva al Teatro di San Cassian. Molto amata dal pubblico, la ballerina viveva in una casa in affitto di proprietà del Procuratore Tommaso Sandi.

Il Tommaso Sandi in questione si invaghì della ballerina, ma venne da essa rifiutato. Così, per vendetta, la sfrattò da casa e la denunciò di vita scandalosa con un Turco (!).
Ma Stella Cellini non si fece intimorire e si presentò in tribunale con un certificato di verginità redatto da due ostetriche e contro-firmato da un parroco.

Vinse così la causa e fu completamente riabilitata e tornò a calcare le scene ancor più amata.

E fu così che da allora a Venezia non si giurò più sulla Vergine Maria ma sulla vergine Cellini.


Sempre sul fronte del gentil sesso non si può non nominare Cecilia Zeno.

Cecilia, di nobili natali, fu l'amante del doge Andrea Tron e per questo soprannominata la "Trona".
Donna colta e di spirito, difese strenuamente i suoi ideali di donna libera e i suoi principi anti-clericali.

Fu anche discreta poetessa e benefattrice.

Era grande amante del teatro e aveva un palco fisso presso il Teatro di San Beneto.

Celebre fu l'episodio del 1785 quando fu allestito un grande spettacolo nel Teatro ed ella sub-affittò il suo palco, per una somma spropositata, ai duchi di Curlandia in visita alla città.

E subito il popolo motteggiò: “Brava la Trona, la vende el palco più caro de la mona!”

E lei, che era donna di spirito, prontamente rispose: ”Gavè razon, perché questa, al caso, la dono!”.

E il popolo di rimando: "La Trona, la mona, la dona!".


 

 

sabato 9 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 03

 


Il 26 marzo 1511 un tremendo terremoto colpiva la città facendo rovinare alcune case e vacillare le due colonne di Piazzetta San Marco.
La mattina seguente il patriarca Antonio Contarini, si presentava al Collegio Ducale per affermare che quel terremoto era necessariamente un castigo mandato dall'alto a Venezia per i tanti peccati che vi venivano commessi, primo fra tutti quello della carne.
In particolare il Patriarca volle ricordare un fatto avvenuto l'anno prima, quando alcuni giovani patrizi osarono ballare tutta una notte con le monache del convento della Celestia, al suono di pifferi e trombe, ed essendosi recato lui stesso a rimproverarle, tutte si misero alla porta rifiutando di farlo entrare.

Ma né il terremoto, né tanto meno la sua predica, sortirono particolare effetto, e tutto continuò come sempre.


Secondo la testimonianza di Marin Sanudo, agli inizi del Cinquecento, le meretrici in città sommavano ad 11.654, un numero impressionante se si pensa che la popolazione totale era di circa 130.000 persone!

Facendo un conto sommario, significa che circa una donna ogni cinque era prostituta di professione.

Ma, essendo così tante, non c'era abbastanza lavoro per tutte, così avvenne quella che forse è la prima manifestazione sindacale di protesta nel mondo: le meretrici scesero in Piazza San Marco per lamentarsi del poco lavoro e chiedendo un intervento dello Stato.

Le loro proteste furono ascoltate e il Maggior Consiglio dispose che ben mille di queste si trasferissero al campo di Mestre, ove era allora attendato l'esercito di terra veneziano. E si decise di licenziare tutte quelle fra esse che essendo foreste, abitassero a Venezia da meno di due anni.

Insomma lo Stato ascoltava e, se possibile, aiutava tutte le categorie professionali.


Ma ciò che colpisce maggiormente è che le meretrici non erano soggette ad alcuna tassazione!

Giordano Bruno nella sua commedia il "Candellajo", parlando di Venezia, dice: "Ivi le prostitute sono esenti da ogni aggravio. Certo, se il Senato volesse umiliarsi un poco e fare come gli altri, si farebbe un po' più ricco..." ma evidentemente la Repubblica era già sufficientemente ricca!


Tale Cesare Vecellio ci ha lasciato una descrizione minuta dei costumi delle meretrici dell'epoca: "Le pubbliche meretrici non stanno solo nei luoghi loro preposti, ma si trovano ovunque in città. Vestono, a volte, come uomini, nondimeno l'inegualità della fortuna fa sì che non tutte vadano vestite pompose allo stesso modo. Sulle carni portano camicia accomodata di sottigliezza ciascuna in base alla merce che ha da spendere. Molte di loro si trattengono per strada cantando canzonette amorose con poca grazia.

Alcune però, fra tante, oltreché colla bellezza del corpo, sollevavansi sopra le loro pari colle doti dello spirito e coll'educazione onde erano fornite. Esse erano più propriamente denominate "cortigiane". Le cortigiane si dedicavano alla musica e non si mostravano ignare alle lettere, e potevano paragonarsi in parte alla famose etére, sospiro degli uomini più distinti della Grecia. Non è quindi da stupirsi se la loro condizione destava l'invidia d'una tra le dame galanti di Brantome, la quale, avrebbe voluto cangiar tutto il suo avere in biglietti di banca e recarsi a Venezia per condurre colà vita cortigianesca, piacevole e felice."


Le cortigiane costituivano nella Venezia dei secoli d’oro una categoria sociale e professionale distinta da quella delle comuni meretrici.
Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le cortigiane si distinguevano non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro classe sociale, della cultura e talvolta anche del talento artistico e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.


Infatti, nascere nobile o comunque di famiglia ricca, non era poi così auspicabile, in quanto avevi solo due opzioni : andare in sposa a qualcuno che manco conoscevi, o finire in convento.

Ecco quindi che il mestiere di cortigiana appare come una via di fuga.

Una fuga che tra l'altro comportava anche la possibilità di ottenere un'indipendenza economica che ti slegava dagli obblighi famigliari.

Ecco perché così tante donne scelgono questo mestiere che le rendeva libere e al contempo ammirate e invidiate.


In questo secolo venne pubblicato addirittura un catalogo delle cortigiane con tanto di indirizzi, prezzi e nomi della relativa matrona (che spesso era la madre...).


La più celebre tra queste fu senz’altro Veronica Franco.
Nata da famiglia benestante si sposò giovanissima con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla vita libera. Era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse amicizie tra letterati e nobili, e venne anche ritratta da Tintoretto che le donò poi il quadro.

Ecco, il fatto in sé che un pittore come Tintoretto avesse ritratto la Veronica Franco ci dà una misura della considerazione sociale che avevano queste cortigiane.

La sua fama era tale che quando Enrico III re di Francia venne in visita a Venezia nel 1574 volle conoscerla e passò una notte con lei. A ricordo dell’incontro, Veronica donò al re il proprio ritratto e due sonetti.


Altrettanto celebre fu Angela del Moro, che per esser figlia d'uno zaffo (cioè di uno sbirro), era soprannominata la Zaffetta.
Il cardinale Ippolito de' Medici, venuto a Venezia nel 1532, scelse proprio la Zaffetta per la prima notte del suo arrivo in città.

E Pietro Aretino ne faceva il più sfoggiato elogio, invitandola in diverse occasioni a cena, unitamente al Tiziano e al Sansovino.


Si può ben dire che in Pietro Aretino fosse personificato il libertinaggio di Venezia, città da lui abitata per moltissimo tempo e quivi sepolto.

Dedito, per pubblica fama, alla pederastia, si tenne in casa, in epoche diverse, alcuni giovanotti, tra cui un certo Polo che fece maritare con Pierina Riccia, facendosela però cedere ad uso proprio ed amandola assai, non tanto però da non perseguitare in tutti i modi Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Serena. Che fece allora Gian Antonio per vendicarsi? Indusse Pierina a fuggire dalla casa di Aretino insieme a Caterina Sandella, altra amica dell'Aretino, dalla quale ebbe una figlia, Adria, il cui padrino di battesimo era il tipografo Francesco Marcolini, la cui moglie Isabella, intratteneva pur essa amorosa tresca collo scostumatissimo Aretino!

Pietro Aretino è conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso (almeno per l'epoca), fra cui i conosciutissimi Sonetti lussuriosi.

Ma scrisse anche opere di contenuto religioso.Questa, che oggi potrebbe apparire incoerenza, fu in realtà, per molti versi, un modello dell'intellettuale rinascimentale.

In una sua lettera scrisse: «Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; e tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice»
E dove avrebbe potuto vivere uno così, se non a Venezia?





sabato 2 gennaio 2021

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 02

 

Nell'articolo precedente abbiamo visto qualche esempio di scandalo tra i nobili veneziani.

Ma l'apice della sfrontatezza era raggiunto dalle monache dei conventi. In particolare i conventi patrizi, i quali venivano chiamati "doppi" in quanto frati e monache vi abitavano insieme. Talvolta le monache si tenevano qualche frate in vicinanza con il pretesto di venir da essi guidate negli affari spirituali.

Il Maggior Consiglio emanava quindi, nel 1385, una legge con cui si imponeva che il confessore delle monache fosse di non meno di 60 anni!

Ma il costume di recarsi nei chiostri delle monache era di largo appannaggio anche dei laici, e così feste e divertimenti non mancavano per queste suore, che infatti avevano trasformato il loro parlatoio in un elegante salotto sede di concerti e spettacoli vari, con un continuo "pellegrinaggio" di giovani cavalieri mascherati.


Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana, Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del Settecento:

Vestono leggiadrissimamente con abito bianco alla francese, il busto di bisso a piegoline, un piccolo velo cinge loro la fronte, sotto la quale escono li capelli arricciati e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.

Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate.

Per questo motivo in tutta la città v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, che in dialetto erano chiamati condon, termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom, di cui però non è mai stata accertata l'esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere” = "proteggere".

Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli, ed è per questo tra l’altro che la sifilide veniva detta mal francese; la cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano mal napolitaine!


A Venezia la legge prevedeva pene severe per i "monachini", cioè le persone che intrattenevano relazioni amorose con le monache, che andavano dalle multe, al carcere, fino alla pubblica frusta e al bando.


Ma se da una parte la legislazione veneziana si occupava di questi problemi, non trascurava l'argomento della pubblica prostituzione, giacché si legge in diversi decreti dell'epoca che le meretrici erano considerate "omninamente necessarie in Venezia".

Tutte le meretrici erano sottoposte alla sorveglianza dei Signori della Notte e dei Capi di Sestiere, tra le varie limitazioni a cui erano costrette ricordiamo che non potevano frequentare osterie, né recarsi in Chiesa durante la Messa della domenica, né indossare gioielli.


Un decreto del 1360 stabiliva che tutte le meretrici dovevano essere confinate in un'area nei pressi della chiesa di San Matteo di Rialto (chiesa poi scomparsa). Zona ribattezzata "Castelletto" forse perché c'erano delle torri sui tetti delle case, come usava all'epoca.

Tra le altre regole ricordiamo: l'obbligo di portare al collo, come segno distintivo, un fazzoletto giallo; approssimandosi la notte, dovevano, allo scocco della prima campana di San Marco, recarsi tutte nel già menzionato Castelletto, mentre durante il giorno potevano circolare liberamente per la città, eccetto durante le feste di Natale e di Pasqua, nonché in tutte le feste dedicate alla Madonna.


Ad ogni casa del Castelletto era preposta una direttrice chiamata "matrona" a cui spettava di dividere ogni mese, fra le sue dipendenti, i guadagni conservati in una cassa, cassa che veniva aperta solo in presenza di un rappresentante di Stato.

Questo per garantire che le meretrici fossero correttamente retribuite.

Sì, perché se da un lato queste meretrici subivano leggi che limitavano la loro libertà, da altre leggi venivano protette e difese. Si provvide ad esempio a controllare che coloro i quali ne avessero riscattate dalle matrone, non le tiranneggiassero, e che coloro che ne avevano sposate non continuassero a tenerle nel Castelletto.

Si deputarono delle guardie armate che tutte le notti sorvegliassero il loro quartiere perché nessuno potesse far loro del male, e si proibì di entrare nel Castelletto armati, sempre al fine di proteggerle.

Insomma niente veniva lasciato al caso nella Repubblica Serenissima, qualunque mestiere era regolamentato e protetto. 

 


 



lunedì 28 dicembre 2020

Cortigiane e libertinaggio a Venezia 01

 

Nel quattordicesimo secolo Venezia raggiunse l'apice della sua grandezza.

Grandi erano le ricchezze che vi transitavano e di conseguenza numerose le persone che vi risiedevano stabilmente o per limitati periodi legati a trattative commerciali.

Naturalmente tra i vari servizi di accoglienza offerti non mancava certo la prostituzione.

Le nuove leve, se così possiamo chiamarle, provenivano per lo più dalle numerose orfane (soprattutto figlie illegittime di nobili, abbandonate) che popolavano le strade della città.

Alcune di queste venivano salvate da organizzazioni religiose o statali, ma molte erano quelle che non si riusciva a soccorrere.


Tra i soccorritori ricordiamo fra' Pieruzzo d'Assisi, francescano, che di contrada in contrada raccoglieva gli orfani che riusciva a trovare per portarli nelle case di proprietà dei frati intorno alla chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1346 aprì un vero e proprio istituto per trovatelli in parrocchia San Giovanni in Bragora col nome di Pietà. Primo dei quattro cosiddetti "ospedali" nei quali ai bambini veniva insegnato un mestiere mentre alle bambine si insegnava musica e canto.


Ma queste attività di assistenza non erano certo in grado di arginare del tutto il fenomeno della prostituzione, tanto più che non necessariamente le meretrici erano orfane abbandonate, anzi spesso erano avviate al mestiere dalle loro stesse madri.

Inoltre capitava anche che alcune ragazze venissero rapite alle loro famiglie nelle campagne dell'entroterra per costringerle a prostituirsi in città.


Alcuni storici dell'epoca lamentavano il degrado dei costumi dell'epoca, ma questi costumi non sono certo mai mancati nella storia dell'uomo presso qualunque società; ciò che distingueva però la prostituzione a Venezia era che qui era strettamente regolamentata dallo Stato, ma ne parleremo meglio in un prossimo articolo.


Per pura curiosità possiamo narrare qualcuna delle storie più celebri che diedero scandalo all'epoca.

Ad esempio la tresca tra il doge Andrea Dandolo e Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti, duca di Milano.

Isabella, dopo aver adornato di molte ramosa corna la testa del povero marito, simulò nel 1347 di aver fatto voto di recarsi a Venezia per la festa della Sensa.

Partì quindi da Milano, con il suo corteo di dame, e arrivò a Venezia accolta con grandi feste e onori dalla Repubblica. Ma appena giunta in città, si diede alla più sfrenata licenza, e il doge stesso, Andrea Dandolo, fu uno di quelli con cui largheggiò dei propri favori, dando agio anche alle dame del suo seguito di ricercare i propri piaceri (per l'esattezza nel documento dell'epoca viene utilizzata la parola "pastura").

Il viaggio, possiamo letteralmente dire, di "piacere" di Isabella, costò addirittura la vita al povero Luchino, il quale avendo avuto notizia dei sollazzi della moglie a Venezia espresse l'intenzione di vendicarsi, ma fu prevenuto da Isabella con un veleno che lo portò brevemente alla morte. 

Altro esempio riportato nelle cronache è la storia di Lodovica Gradenigo, consorte del doge Marino Falier. Si narra infatti che durante una festa da ballo datasi in Palazzo Ducale la sera del Giovedì grasso del 1355, il nobile Michele Steno veniva cacciato dalla sala per alcuni eccessi dimostrati durante la festa, il quale però si vendicò scrivendo sopra il seggio del Falier il noto epigramma: "Marin Falier da la bela mugier. Altri la gode e lu la mantien!". Si dice che Marino Falier se la prese così tanto per questa frase che decise di ordire la nota congiura di Stato, che fu poi repressa e che terminò con la decapitazione del doge.


Interessante, anche se per motivi diversi, è la storia di Luigi Venier, figlio del doge Antonio Venier, il quale era l'amante della moglie del nobile Giovanni dalle Boccole. Accadde che la moglie si stufò di Luigi e non volle più donargli le sue grazie, questi però non la prese bene e pensò di attaccare sul ponte di Cà dalle Boccole due grandi corna accompagnate da una scritta volgarmente pesante contro la famiglia Dalle Boccole, e per questo veniva catturato e condannato a due mesi di prigione, seppur figlio del doge stesso. E' interessante il fatto che il Doge Antonio Venier, il quale avrebbe potuto intervenire per far almeno diminuire la pena, lasciò che la giustizia facesse il suo regolare corso, affermando che la giustizia è uguale per tutti.


Abbiamo visto qualche scandalo legato al mondo della nobiltà, ma anche i preti non volevano esser da meno e innumerevoli sono i casi di scandalo raccontati nelle cronache. Ricordiamo ad esempio, don Stefano Pianigo, piovano di San Polo, che sedusse una vedova, tale Cristina, e poi la diede in sposa a tale Nicoletto d'Avanzo, col patto di potersi congiungere con la donna, quando più gli fosse piaciuto.


 

mercoledì 31 ottobre 2012

Palazzo Grassi e il Cavalier Servente

Palazzo Grassi sorge a fianco della Chiesa di San Samuele, sul Canal Grande. I Grassi erano d'origine bolognese, presenti a Chioggia già dalla fine del 1200. Nel Seicento furono iscritti nel "Libro d'Argento" come cittadini veneziani e ottennero il patriziato nel 1718, pagando una somma di 60.000 ducati. Nel 1732 "in data 12 maggio, i patrizi Giovanni e Angelo Grassi acquistarono per 22000 ducati, dalla famiglia Tribellini, le case poste nella contrada San Samuele, sopra il campo".
Sull'area di quelle case, poi abbattute, sorse, non senza difficoltà, il Palazzo Grassi. L'incarico fu dato all'architetto Giorgio Massari nel 1748 e fu terminato nel 1772, anno del matrimonio tra Giovanni Grassi e Margherita Condulmer. Il 20 gennaio 1779, Margherita si ritirò nel monastero di S. Lucia. Il motivo fu il divieto avuto dal marito di avere per cavalier servente il nobiluomo Giacomo Dolfin, giovane di bell'aspetto e assai istruito.
Il Cavalier Servente era un figura tipica del Settecento. Ogni nobildonna maritata che si rispettasse doveva averne uno e la presenza del cavalier servente era addirittura patteggiata nei contratti nuziali. Questa figura era anche chiamata "cicisbeo", termine che deriva da "cicisbeare", anticamente usato per "bisbigliare"; ancora oggi il bisbigliare spettegolando delle donne viene a volte indicato come "fare cicì e cocò". Ma forse invece deriva dal greco "cicys" (forza) e "sbeo" (estinguere, spegnere), nel senso di "effeminato".
Il cavalier servente andava al mattino a svegliare la dama, ad augurarle buon giorno, a servirle la colazione e ad aiutarla ad allacciarsi il busto. Poi la portava a passeggio, quindi a teatro o al ridotto, infine la riaccompagnava a casa, ad aspettare che si addormentasse...

domenica 8 luglio 2012

Giorgio Baffo, poeta erotico veneziano

Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione.
La famiglia Baffo giunse a Venezia nell'anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297. Essi contribuirono alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell'isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:

De povertà fè voto e castitae,
e po' ve volè tior tutt'i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.


La sua avversione al clero si spiega con la grande corruzione e i cattivi costumi che serpeggiavano nella Venezia del Settecento.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. "Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso... Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v'era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co' suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio".
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:

Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.


I suoi versi nascevano dall'osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:

Amigo vol contarve in t'un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.


Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell'infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita.
Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un'unica figlia. L'unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l'unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:

Pur a mi la me tocca de sta' fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l'ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.


Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno.
Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.

(Fonte: M.C. Bizio)

giovedì 30 settembre 2010

Il convento di San Lorenzo

Un primo monastero di monache benedettine riservato al patriziato venne fondato nell’850 per iniziativa della potente famiglia Partecipazio, con il tempo il complesso accrebbe le sue ricchezze in maniera vertiginosa, già nel 1100 era proprietario di circa 200 immobili in città e vari appezzamenti in campagna, tutte rendite utili che si sommavano alle ricche doti portate delle novizie che provenivano tutte da benestanti famiglie nobili.
Nel tempo chiesa e monastero hanno subito numerosi lavori di restauro e modifiche, durante uno di questi lavori andarono purtroppo dispersi i resti di Marco Polo che qui era sepolto. San Lorenzo oltre ad essere uno dei due conventi riservati ai patrizi (l’altro è San Zaccaria) era anche uno dei cinque conventi doppi dove cioè vivevano sia frati che monache. E' chiaro che trattandosi di donne costrette alla vita conventuale dalle loro famiglie solo per accrescere il capitale dei figli maschi, queste non erano esattamente guidate dalla vocazione! E così per rivalsa esigevano distinzioni e privilegi, anzi, nei conventi, lontane dalla severità familiare, erano in un certo senso più libere e potevano abbandonarsi ad un ozio raffinato e libertino.
Ma non tutte accettavano supinamente il loro destino: una voce forte fu quella della monaca  Anna Tarabotti che all’inizio del 1600 scrisse un libretto titolato: “L’inferno monacale”, dove denunciava le autorità politiche e religiose di basso maschilismo, contestando i condizionamenti, le repressioni e le mortificazioni che le sue contemporanee, lei per prima, dovevano subire – ma fu una voce isolata, le costrizioni perdurarono e così i vizi ed i lussi delle monache. Da citare una nota dal diario del Granduca di Toscana Cosimo III, che venne qui in visita agli inizi del 1700, dove descrisse le monache in ”abito più da ninfe che da monache”.
Ma tutta questa libertà portava una seria preoccupazione: le gravidanze indesiderate – in tutta la città per questo v’erano diverse imprese che producevano contraccettivi, fabbricati con budella di animali, in dialetto erano chiamati "condoni", termine che qualcuno fa risalire ad un ipotetico medico inglese Condom di cui però non c’è alcuna certezza della sua esistenza, più probabilmente deriva dal latino “condere”="proteggere". Questo interesse al profilattico era dettato anche dal tentativo di difendersi dalla sifilide, malattia la cui prima epidemia esplose nel 1496 con la discesa di Carlo VIII di Francia alla conquista del Regno di Napoli (ed è per questo tra l’altro che la sifilide viene anche detta "mal francese", cosa curiosa è che in Francia invece la chiamano "mal napolitaine"). Tra i personaggi famosi colpiti dalla sifilide ricordiamo Casanova, Giorgio Baffo e Papa Giulio II!




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Version française

martedì 25 maggio 2010

Amori dimenticati, fedelmente raccontati

Dopo aver studiato diritto a Padova, a quindici anni Giacomo Casanova (1725-1798) ricevette gli ordini minori dalle mani del patriarca di Venezia. Ora portava la tonaca, e anche la tonsura, che lo facevano riconoscere per chierico. La gente vedeva già in lui un sacerdote, sua nonna persino un apostolo! Era fiera del nipote, che con la sua vocazione spirituale assicurava a se stesso e all’intera famiglia la salvezza dell’anima.
Il giovane chierico deve tenere la sua prima predica nelle chiesa di San Samuele. Tema prescelto, alcuni versi di Orazio, ma il curato Tosello non approva la proposta: la chiesa non è luogo per poeti pagani. Presto però si presenta al giovane una nuova occasione per farsi valere come predicatore: il 19 marzo 1741, alle quattro del pomeriggio, salirà sul pulpito per tenere la predica festiva in onore di San Giuseppe, il casto sposo della Vergine Maria. Casanova prepara la predica e la impara a memoria, ripetendola la sera prima di andare a letto e la mattina appena sveglio. Non ha problemi con la memoria, lo si è già visto a scuola.
Ma proprio il giorno della festa di San Giuseppe viene inviato a pranzo dal conte di Monreale. Il pranzo è buono e altrettanto il vino. Casanova sta per dimenticare la predica. Un messo viene a prenderlo, e Casanova giunge in chiesa appena in tempo.
Ecco che il giovane chierico si trova sul pulpito, appesantito dal pranzo e dal vino, davanti ai volti della parrocchia riunita. Riesce a dire appena l’esordio, poi perde il filo, si inceppa. I fedeli bisbigliano, trattenendo a stento le risate. A questo punto Casanova si fa prendere dal panico, perde la testa e dimentica la predica appresa così faticosamente a memoria. Evita l’imbarazzo con uno svenimento, mezzo vero e mezzo simulato, e stramazza sul pulpito. Viene portato privo di sensi in sagrestia. Il disastro è completo e Casanova, cui l’oblio fu così fatale, prende una decisione definitiva: “Ebbi la forza di persistere nella decisione di non saggiare più quel mestiere”.
La via è libera alla vocazione erotica di Casanova.
Anch’essa inizia con il curato Tosello o, per meglio dire, con sua nipote Angela. Giacomo ama Angela, Angela ama Giacomo ed è anche disposta a diventare sua moglie, ma fino a quel momento sorveglia “come un drago” la sua virtù e non concede all’amante il benché minimo favore. L’”avarizia” di Angela finisce per sconvolgere l’amante, la sua astinenza lo prosciuga. L’amore diventa un tormento, deve dimenticare “per qualche tempo i rigori della crudele Angela”.
Lo aiuta in questo un soggiorno in campagna.
Di ritorno a Venezia si riaccende in lui la passione temporaneamente sopita per Angela. Casanova ricomincia ad incalzarla con le sue voglie, ma la donna rimane risoluta. Casanova lascia furioso la città e torna a Padova per laurearsi, ma soprattutto per dimenticarla. Il titolo universitario non basterà allo scopo, ma a dimenticare lo aiuteranno in modo molto più efficace, al suo ritorno a Venezia, la sedicenne Nanette e la quattordicenne Marton. La notte è abbastanza lunga per divertirsi sotto le coperte con le due compagne, per fargli provare un piacere di cui godeva per la prima volta in vita sua, e per dimenticare “definitivamente” Angela: “J’oublie Angéla”.

Tutto questo lo veniamo a sapere dalla sua autobiografia, scritta in francese e pubblicata in edizione postuma con titolo Histoire de ma vie (1825), che egli terminò nel 1797, a settantadue anni, nel castello boemo di Dux. Una delle caratteristiche e dei paradossi più affascinanti di queste ‘confessioni’ è che Casanova si ricorda anche, e con la massima precisione, delle circostanze del vari oblii.
Per poter scrivere questi ricordi, da vecchio, lontano dagli affari mondani, Casanova rafforzò per tutta la vita la memoria (che una sola volta, come s’è visto, l’aveva piantato in asso) con note e molte lettere da lui scritte o ricevute. In questo modo potè ricordarsi delle innumerevoli donne da lui amate nel corso della vita, anche se non si vantò mai del numero delle sue avventure amorose. Casanova non è Don Giovanni, e non trae piacere dalle conquiste in sé, ma tutte le donne, a cui a fatto instancabilmente la corte, le ha amate, una dopo l’altra.
E’ vero che in ognuna delle nuove avventure amorose, Casanova cerca sempre nuovi piaceri dei sensi, ma ad eccitarlo non è ciò che in questo gioco si ripete sempre uguale, bensì ciò che ogni volta soddisfa la sua curiosità in modo diverso. Un bibliofilo come Casanova vuol leggere ogni donna come un libro, e questo significa che, come il lettore, prima di aprire un nuovo libro, deve chiuderne un altro. Così tra due amori, come tra due letture, si trova una cesura che nel linguaggio erotico di Casanova è chiamato oblio, e tuttavia un tipo di oblio che non esclude più tardi il ricordo.


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